TERZA PUNTATA DEL JOKER PIÙ LUNGO MAI SCRITTO: UN PO’ MALINCONICO E UN PO’ A LUCI ROSSE
Se non le avete lette, siete ancora in tempo per recuperare la prima e la seconda puntata.
Se non le avete lette, siete ancora in tempo
per recuperare la prima e la seconda puntata.
Dante Matelli scrive: «Per la mia generazione Riva è stato il rombo (del mare) cui accenna la Bibbia: sorpresa, forza e terrore per gli avversari (il male etc.). Yhwh spesso si presentava così».
Grande Dante, a Brera sarebbe piaciuta la sua divinizzazione di Luis.
P.S. Come nome di Dio (Yhwh), sono affezionato a quello in aramaico (Ilāh) da quando andai a Malula, in Siria, dove ancora si parla la lingua di Gesù, e visitai la grotta di Santa Tecla nella quale (sembra un’invenzione di García Márquez) piove dentro da più di duemila anni, una pioggia di lacrime, una goccia alla volta che cade in una traboccante acquasantiera. È il pianto eterno per la tragica sorte di Tecla, la ragazza che si era innamorata (solo religiosamente?) di San Paolo. Così mi disse una suora ortodossa del vicino convento offrendomi caffè bollente e squisiti pasticcini.
La pioggia di lacrime di Santa Tecla mi ha ricordato una delle poesie più belle di Francesco Petrarca. La studiai all’università nel corso di Letteratura Italiana Generale, tenuto da Guglielmo Gorni prima di andare a insegnare a Ginevra. Nessun altro sapeva spiegare un adynaton come faceva Gorni. Rivedo le sue occhiate (di rimprovero, compatimento, rassegnazione, ma anche divertimento) quando mi sorprendeva mentre, autoesiliatomi all’ultimo banco, cercavo di nascosto di fumare una sigaretta (Marlboro rosse allora).
Gorni amava Carlo Emilio Gadda, in particolare i diari di guerra. Se avesse dovuto scrivere un romanzo, probabilmente l’avrebbe scritto sul tormentato rapporto tra Carlo Emilio ed Enrico, il fratello più piccolo dello scrittore, pilota da caccia morto durante un atterraggio con il suo Nieuport Ni.27 («Cielo d’Asiago, aprile 1918», come dice la motivazione della sua Medaglia d’Argento al valor militare). Carlo Emilio avrebbe voluto essere al suo posto. Da qui la sua personale tragedia.
La poesia di Petrarca comincia come un quadro di Turner: «Passa la nave mia colma d’oblio». E continua, nel cuore di una notte buia e tempestosa, raccontando il passaggio tra Scilla e Cariddi (fatevi forza e leggete Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, almeno un po’ di pagine per sentirne la musica, il motivo; non lo scorderete più).
Riprendiamo la navigazione petrarchesca. Il mare è «aspro» e al timone siede una figura minacciosa di cui il poeta è prigioniero (una scena da Conrad). Questo losco figuro («’l nimico mio») è la metafora della passione amorosa di Petrarca per Laura.
Laura appartiene a quel club esclusivo femminile di cui fanno parte Beatrice Portinari di Dante, Daisy Buchanan di Jay Gatsby (la quale, a sua volta, era Zelda di Francis Scott Fitzgerald) e poi, volendo, Ligeia e tutte le altre povere ragazze morte di Edgar Allan Poe.
Anche i rematori della nave di Petrarca sono dei tipacci. Essi sono insolenti, irridenti, si prendono gioco della possibilità di naufragare e di morire in quel mare nero e agitato. Sono una metafora pure loro, la metafora dei cattivi pensieri che scuotono la mente del poeta.
Questa poesia è una specie di seduta psicoanalitica. Forse tutte le poesie lo sono. Petrarca, come se fosse sul lettino dello psicoanalista, racconta un sogno, l’incubo di essere in mare aperto su una nave in balia delle onde con un equipaggio malfidato.
Un vento umido ed eterno (come il pianto di Santa Tecla) rompe le vele con i suoi sospiri, le sue speranze, i suoi desideri. È una pioggia di lacrime, una nebbia di sdegno, quella che bagna e rallenta le sartie messe a dura prova dell’imbarcazione. Nel buio e nella tempesta, il poeta ha perso i due punti di riferimento per la sua rotta, le sue stelle fisse: gli occhi dell’amata Laura (che poi di cognome faceva De Sade ed era sposata con un antenato del terribile Marchese, il Rocco Siffredi della Rivoluzione francese, ma questa è un’altra storia).
Ormai smarrito, perse in mezzo ai marosi ogni ragione e ogni arte, Petrarca comincia a disperare di raggiungere il porto.
Chiamatelo Ismaele.
Paolo Costa scrive: «Lamento per Luis è un testo bellissimo, di pulsante, verace poesia, in cui è riuscito a distillare, facendolo proprio, il meglio di Gianni Brera. Gigi Riva non è stato solo un grande campione, ma fu l’immagine di noi giovani che negli anni 60 tiravamo calci nei cortili dell’oratorio, e che per dissetarci bevevamo l’acqua delle fontanelle, che non avevamo i soldi per la gazzosa. Poi vennero altri campioni, certamente. Solo non so, se più uomini. Le confesso che non tutto quello che lei scriveva su Sette mi entusiasmava. Alcune volte mi sembrava che lei se la tirasse un po’… Non importa. Attendevo paziente, perché presto dalla sua penna giungeva una frase, una parola, un lampo illuminare».
Tirarsela, o non tirarsela, that is the question. Prima di risolvere questo dilemma, mando in onda un po’ di pubblicità.
Pubblicità per me stesso, Gianni Brera e Gigi Riva
Giovanni Ferrari: «Grazie per Lamento per Luis, questa bellissima perla, sua e dell’incomparabile Giuanbrerafucarlo».
Pubblicità per me stesso, Gianni Brera e Gigi Riva
Anastasia Macrì: «È il saluto pi,ù bello che ho letto a Rombo di Tuono».
Pubblicità per me stesso, Gianni Brera e Gigi Riva
Domenico Bruschi: «Ben ritrovato. Lei mi fa felice. Per un senza Brera, ora anche senza Riva, rimanere anche senza Joker sarebbe stato troppo».
Fabio Ruggeri: «Che pezzo! Degno in tutto al grandissimo Riva e al grandissimo Giuanbrerafucarlo!».
Domenico Cacopardo: «Bravo. Riva l’ho visto allo stadio varie volte compresa la partita con il Galles del 68 in cui segnò tre goal su quattro».
Pubblicità per me stesso, Antonio Manzini, Rocco Schiavone e Marco Giallini (comparativa con Robecchi, Monterossi e Bentivoglio)
Olimpio Della Fontana: «Che dire dopo una recensione così (Tutti i particolari in cronaca)? Chapeau a D’Orrico, non segue dibattito e tutti in libreria. Manzini non delude mai, mentre invece mi tocca dire che Robecchi alcuni dei suoi Monterossi li ha cannati, così come la serie tv non regge il confronto con Schiavone e Giallini schiaccia alla grande Bentivoglio nel duello tra protagonisti».
Pubblicità per me stesso e Antonio Manzini
Gustava De Feo: «Magnifica recensione piena di personaggi a sorpresa. In quanto fan di Manzini, caro Joker, ha sfondato una porta aperta, ma leggere le sue motivazioni per il 10 è appassionante quanto mi riprometto dalla lettura di Tutti i particolari in cronaca».
Pubblicità per me stesso e “La quarta versione di Giuda” di Dario Ferrari
Stefano Marelli: «“Ai critici che vi diranno che c’è una eccessiva escursione termica tra umorismo e tragedia nei romanzi di Ferrari, rispondete pure che è vero. E non aggiungete altro. Sempre a questi critici potete dire che il giallo di Ferrari è un giallo teologico di impronta borgesiana, l’unico vero teologo dei nostri tempi. E vedrete che non diranno più una parola sconvolti dalla fortissima escursione termica contenuta nella vostra affermazione”. D’Orrico in purezza, come dicono i cantinieri».
Pubblicità per me stesso, Manzini e la misteriosa sorella della governante
Nicola C. (Forum Substack): «Recensione perfetta che obbliga a leggere Tutti i particolari in cronaca, e infatti io l’ho letto, anzi l’ho divorato in 2 giorni, ma mi aiuti a risolvere un dubbio, il mistero della sorella della governante Ida io non l’ho mica capito».
Le do un aiutino (ma non mi costringa a spoilerare): per la sorella della governante pensi alla moglie del vicequestore Schiavone.
Massimo Cecchini, ricordando i tanti campioni incontrati negli anni in cui ha scritto per la Gazzetta, scrive: «Riva, l’unico con cui parlare era un’emozione».
Alberto Visconti di Massino: «Premesso a scuola italiano 6 meno meno... Non so scrivere come Antonio D’Orrico. Gigi Riva lo stimavo come uomo, avrei avuto piacere essergli amico. Lei vede il calcio con il cuore, il bravissimo giocatore come massima espressione del genio umano. Per me, come anche per tanti altri, il calcio è stato tifoseria, voglia di aggressività verso i giocatori e i tifosi della parte nemica. Ammiravo i violenti che si mettevano in gioco pagando di persona. Mi commuovevano. Pensavo: sono quelli che nell’esercito sarebbero stati in prima linea degni della medaglia e del monumento ai caduti (nella storia della mia famiglia tanti i militari). Gli insulti peggiori erano in qualche modo tollerati».
Allora Winston Churchill (uno dei più grandi Mister che abbia mai allenato nel campionato mondiale della Storia) aveva proprio ragione sulla faccenda degli italiani che trattano la guerra come se fosse una partita di calcio e una partita di calcio come se fosse una guerra.
Facciamo un po’ di filologia (di Federico García Lorca e Gianni Brera) con Ezio Faccioli: «Mettendo per un momento a tacere la commozione suscitata dal Lamento per Riva di Brera, nel lorchiano Llanto por Ignacio Sánchez Mejias è la seconda di quattro parti che si chiude con la imperiosa invocazione “Yo no quiero verla!!” (sottointeso: la sangre derramada, il sangue versato) preceduta dall’altra invocazione “No me digáis que la vea” (non ditemi di vederlo, lo stesso sangue) che il Gioan a memoria maltratta in “que no me dejas veerlo”.
Puntualizzazione che non toglie nulla all’afflato epico del Lamento breriano».
Grazie per la precisazione (per un attimo leggendola mi sono venute in mente le divagazioni filologiche ugro-finniche con cui Luciano Bianciardi intratteneva Brera mentre a San Siro guardavano le partite di pallone). Le prometto un prossimo mio personale Lamento per Brera. E anche, visto che ci siamo, un Lamento agro per Bianciardi.
Piera Treu scrive: «Grazie per aver cantato Luis il Grande e la sua gente. Terra di eroi è la Sardegna, eroi mandati al fronte a combattere con gli alpini, terra dove vidi un sindaco informe, terrorizzato e sbilenco, sfilare in centro a Cagliari a cavallo di un magnifico destriero sauro, sia pure trattenuto per le briglie da un solerte scudiero. E se si infliggesse una passeggiata del genere ai nostri politici?
Luis proprio in Sardegna, tra quella gente coraggiosa, ruvida e sincera non poteva che trovare il proprio habitat.
Ma c’è altro: il rispetto per la sorella, una Penelope capace di allevare e nutrire la sua famiglia di orfani, c’è quel senso della misura che gli fa dire no quando si cerca di acquistarlo – la sua dignità non gli consente di sentirsi in vendita –, che gli fa dire frasi giuste ma parche, essenziali, perché anche la parola non va sprecata, come il sorriso deve suonare vera».
C’era qualcosa di omerico in Riva così come c’era qualcosa di omerico in Brera. Mi spiego. La Difesa e il Contropiede, le due fasi decisive del calcio secondo la teoria breriana, erano ispirate alle grandi narrazioni di Omero. Il modello letterario della Difesa, brerianamente intesa, non è altro che l’assedio di Troia nell’Iliade. Il modello letterario del Contropiede (poi ribattezzato sciaguratamente “ripartenza” da Arrigo Sacchi, non un principe della prosa, e, pappagallescamente, dai suoi seguaci), è il viaggio in mare aperto di Ulisse nell’Odissea. (Passa la nave sua).
Qui chiudiamo il capitolo Riva (in tanti anni di giornalismo un’altra volta sola ho avuto tanti riscontri entusiastici per un pezzo: fu per la coverstory su Sette dedicata a Roberto Baggio, che tra l’altro fu l’unico numero del settimanale andato esaurito nelle edicole).
Grazie a tutti. E, caro Costa, visto l’andazzo dei messaggi per Riva, risolvo la question di prima così: me la tiro.
(Fine della terza puntata del Joker più lungo mai scritto – continua)
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Caro Maestro, ma secondo lei accanto a Laura, Beatrice, Daisy e Ligeia, non ci sarebbe un posticino anche per la Miriam di Barney Panofsky?
Aspetto fiducioso il Lamento per Brera…
La frase "c'è qualcosa di omerico in Riva" dice tutto, non serve altro. Perfetta, complimenti, come sempre.