SUPER JOKER A LUCI ROSSE SHOCKING PARTE 1/3
RACCONTO A METÀ STRADA TRA UN POEMA WESTERN EPICO DAL TITOLO «LARRYEIDE” E UN SAGGIO ACCADEMICO INEDITO DAL TITOLO “SCRITTORI & PUTTANE”
Matilda è una puttana ed è una delle protagoniste di Il cammino del morto, romanzo prequel della trilogia di Larry McMurtry composta da Lonesome Dove (premio Pulitzer 1986), Le strade di Laredo e Luna Comanche. Si tratta di romanzi western e lo sono fino al midollo, com’è western Ombre Rosse di John Ford. Ma definirli western non li esaurisce e non li esaudisce. C’è molto di più in quelle storie (anche Dostoevskij per dire, anche Edgar Allan Poe).
McMurtry nacque nel 1934 in Texas e li è morto nel 2021 nello stesso posto dove era nato, Archer City. Il portale del comune lo cita nella pagina iniziale: «Molti conoscono Archer City grazie al nostro figlio più famoso, l’autore vincitore del Premio Pulitzer, Larry McMurtry. I film basati sui suoi romanzi, The Last Picture Show e Texasville, sono stati girati nelle strade di Archer City». Non è un grande omaggio, un po’ goffo nel tentativo di attirare qualche turista letterario, ma quella è terra di mandriani, di cowboy. Lo erano anche gli avi di Larry e si tramandavano vecchie avventure della Frontiera, se le raccontavano la sera sotto il patio del ranch e il bambino che sarebbe diventato autore Premio Pulitzer fece in tempo ad ascoltarle.
Qualche altra curiosità di colore più o meno locale per introdurre questa Larryeide: all’ultimo censimento Archer City contava 1183 abitanti; da The Last Picture Show Peter Bogdanovich trasse il suo bel film L’ultimo spettacolo, ma il romanzo era bello già di suo e parlava della fine del cinema come se fosse la fine dell’America (ed eravamo negli anni Cinquanta); l’ultima moglie di Larry era la vedova di Ken Kesey, lo scrittore di Qualcuno volò sul nido del cuculo (da cui il film con Jack Nicholson).
Kesey, che si considerava un discendente della Beat Generation e un precursore degli hippy, gestiva una colonia di scrittori della quale Larry fece parte (trovate un posticino anche per Kerouac nella sua genealogia).
«Matilda Jane Roberts era nuda come l’aria. Conosciuta in tutto il sud del Texas come “la grande occidentale”, risaliva dal melmoso Rio Grande portando per la coda una grossa tartaruga azzannatrice».
Alla puttana Matilda, Larry concede l’onore di aprire (in forma quasi di apparizione trascendentale) Il cammino del morto, così come allo struggente coro di puttane al funerale di Dobbie, giovane e dolce sposa a cui il destino ha riservato uno degli appuntamenti più terribili, concesse l’onore di suggellare una delle pagine più indimenticabili di Le strade di Laredo.
I romanzi di Larry pullulano di puttane. Forse perché semplicemente il Far West ne era pieno. Pensate alla quantità di sciantose che affollano i saloon nei film di cowboy con le loro camere al primo piano dalla cui finestra scapperà il cliente che qualcuno, facendo irruzione dalla porta, vuole uccidere, o entrerà il killer che vuole uccidere il cliente. In entrambe le dinamiche, la sciantosa resterà sola, desnuda e perplessa, seduta sul letto pensando a chi glielo ha fatto fare di venire a cercar fortuna tra quei buzzurri in quelle terre desolate e selvagge. Ma forse l’alta presenza di puttane nei western di Larry non dipende da un dato statistico e sociologico, dipende da qualcos’altro che ha a vedere con l’amaro mistero dell’amore, ma al momento la questione mi resta abbastanza oscura.
Fino all’apparizione della giunonica, rubensiana, (boteriana addirittura?), Matilda Jane Roberts, giustiziatrice di ninja mordaci, la più bella prostituta dei romanzi di Larry era Lorena di Le strade di Laredo: dapprima prostituta ricercatissima, la più bramata del reame, poi diventata eroica maestra di scuola, moglie innamorata e madre affettuosa. È come passare da Moll Flanders al Libro Cuore, percorsi da montagne russe non rari nel modo di raccontare di Larry.
Volendo continuare nel censimento dei personaggi mcmurtryani in Le strade di Laredo c’è anche il personaggio di Maria, una Madre Coraggio della Frontiera che ama, non ricambiata, il figlio fino all’abnegazione. L’oggetto di tanta adorazione si chiama Joey Garza ed è un incredibile figlio di puttana.
Diciannovenne senza cuore, «troppo bello per durare», Joey ha imparato alla perfezione dagli Apache (ai quali fu venduto bambino) l’arte di uccidere e un gusto spiccato per il burlesque della morte. Cosa intendo per burlesque della morte? Il fatto che segue, ma ne potrei citare molti altri.
Una volta Joey ha freddato un cowboy per provare un fucile di precisione appena comprato. Non pago di aver accoppato del tutto gratuitamente il tizio, gli ha poi rubato una coperta (più che l’assassinio, Joey predilige il furto, è un feticista) e la dentiera. Quindi, con soprassalto da anatomopatologo, ha asportato il cervello dell’uomo e lo ha messo assieme alla dentiera in una tazza che ha depositato sulla porta della prigione di Presidio (siamo lungo il Rio Grande, in territorio tex-mex, alla fine dell’Ottocento).
«Poi se ne andò tutto contento» ratifica impassibile Larry risparmiando le parole come i suoi pistoleros le pallottole.
Joey Garza rapina treni depredando passeggeri e personale viaggiante degli averi e delle vite. In breve tempo, batte i più nefasti record del mitico Billy The Kid. Bisogna fermarlo. L’ordine arriva da New York, direttamente dal colonnello Terry, il presidente della ferrovia, preoccupato per le sorti della sua azienda (se i treni non sono sicuri, nessuno li prenderà più). Il colonnello incarica il capitano Woodrow Call, leggendario Texas Ranger che nella sua lunga vita ha assicurato alla giustizia malviventi di ogni risma, di catturare Joey Garza. Ma il capitano Call non è più l’implacabile bounty killer di una volta, gli anni si sono accumulati sulle sue spalle e sulle giunture delle sue dita, hanno posato un velo di nebbia sui suoi occhi (e lui virilmente si rifiuta di ricorrere agli occhiali). È un sopravvissuto, l’ultimo glorioso veterano dell’Ovest, uno che cavalcò assieme a Kit Carson. Però, un ordine è un ordine per un Texas Ranger, e, seppure controvoglia, il capitano Call si mette lo stesso sulle tracce del bandito. Lasciamolo andare. Lo rincontreremo più tardi.
Scrittori & puttane sarebbe un saggio interessante da scrivere (lo sarebbe anche scriverne uno dal titolo Scrittori puttane pensando a certi figuri che popolano le classifiche dei best seller, ma adesso stiamo parlando di roba seria).
Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez avrebbe ovviamente uno dei capitoli più strategici in Scrittori & puttane. Non so se Larry McMurtry ha mai letto questo romanzo di Márquez. Non lo escluderei. Tra i libri di McMurtry messi all’asta dopo la sua morte (era anche un formidabile bibliofilo, collezionista e mercante) c’era una copia di Cent’anni di solitudine in inglese nella bella edizione Harper Perennial Modern Classics («Many years later, as he faced the firing squad, Colonel Aureliano Buendía was to remember that distant afternoon when his father took him to discover ice»). E William Kennedy così recensì la saga dei Buendía sul New York Times: «Cent’anni di solitudine è il primo pezzo di letteratura dopo il Libro della Genesi che dovrebbe essere letto da tutta la razza umana. . . Mr. García Márquez non ha fatto altro che creare nel lettore un senso di tutto ciò è profondo, significativo e privo di significato nella vita».
Vorrei segnare queste parole con il mio timbro personale di condivisione e approvazione.
Non dispongo, invece, di alcun indizio sul fatto se Márquez abbia letto McMurtry. Sarebbe un vero peccato non lo avesse fatto: Larry è un gigante della letteratura suo pari.
Memoria delle mie puttane tristi è un gran bel romanzo. Tra l’altro, secondo alcuni lettori, avrebbe ispirato una delle mie recensioni più riuscite. Una recensione che faceva più o meno così…
«L’anno dei miei novant’anni decisi di regalarmi una notte d’amore folle con un’adolescente vergine». L’incipit è già celebre, come spesso capita con Márquez. Il protagonista di Memoria delle mie puttane tristi è stato per quarant’anni l’oscuro rimpolpatore di dispacci del Diario de la Paz, mestiere che consiste «nel ricostruire e completare in prosa indigena le notizie dal mondo», e un non meno oscuro critico musicale e teatrale nonché professore di letteratura. Come tutti i personaggi di Márquez, l’uomo ha la memoria di un elefante. Ecco uno dei suoi ricordi più antichi: «Da molto piccolo avevo sentito dire che quando una persona muore i pidocchi annidati fra i capelli scappano via impauriti sui guanciali con gran vergogna della famiglia». Per ricordare meglio ha tenuto un catasto dei suoi amori (contandone già 514 alla boa dei cinquant’anni e tutti di tipo mercenario, nel giro dei bordelli si è aggiudicato due volte il titolo di cliente dell’anno): «Verso i vent’anni cominciai a tenere un registro col nome, l’età, il luogo, e un breve resoconto delle circostanze e dello stile». (Molti anni dopo i clienti di Escort-Advisor avrebbero imitato il protagonista di Memoria delle mie puttane tristi stilando le recensioni dei loro incontri).
Per chiudere in bellezza il suo novantesimo compleanno con un’ultima notte libertina il professore si rivolge a quella che è stata per lungo tempo la sua maîtresse di fiducia: Rosa Cabarcas, un personaggio straordinario (ma definire personaggi le figure di Márquez suona riduttivo, sono creature dotate di vita propria). È Rosa Cabarcas a pronunciare sospirando, mentre ascolta una canzone di amori sventurati interpretata da Toña la Negra, una delle frasi fondamentali del libro: «Il bolero è la vita». E il professore chiosa: «Io ero d’accordo, ma fino a oggi non mi sono azzardato a scriverlo».
Rosa Cabarcas procura al professore una quattordicenne: «Vidi la ragazza addormentata, nuda e indifesa nell’enorme letto in affitto, come l’aveva partorita sua madre... le labbra ingrossate con una vernice di cioccolata». Il professore passa la sua notte libertina contemplando la ragazza addormentata. All’alba se ne va, salutandola con un bacio sulla fronte: «Uscii dal portone dell’orto per non incontrare nessuno. Sotto il sole ardente cominciai a sentire il peso dei miei novant’anni, e a contare minuto per minuto i minuti delle notti che mi mancavano per morire».
Saranno molte le notti che il professore passerà, con queste stesse modalità, in compagnia della ragazza fino a innamorarsene e ad avere anche una crisi di gelosia quando sospetterà che Rosa Cabarcas l’abbia concessa a un altro. Furioso, il professore distrugge le suppellettili della camera che ospita il suo casto, eroticissimo amore. La scenata consente a Rosa Cabarcas di pronunciare, davanti agli ingenti danni provocati dall’ira del professore, un’altra battuta memorabile: «Dio mio! Cosa non avrei dato io per un amore come questo!».
A settantasei anni, nel maggio del 2004, Gabriel García Márquez ha scritto questo romanzo d’amore, questo bolero in prosa dalle parole come pietre preziose e dai sentimenti come animali vivi. Ogni volta che Márquez scrive, la Terra torna a essere come era quando era il paradiso terrestre.
Non lasciatevi trarre in inganno da Márquez che rende sempre tutto facile, ma raccontare le puttane è difficile. Giovanni Arpino avrebbe detto che è difficile come raccontare le suore. Mentre scrivo queste righe mi trovo a Ortigia. Ieri sera passeggiando mi sono imbattuto nella lapide che ricorda dove nacque in una casetta senza pretese Elio Vittorini. È una lapide modesta, più o meno come l’omaggio di Archer City al suo figlio migliore.
Chissà se la gireranno mai una fiction tv su Vittorini (la sua bellezza di normanno del Sud già da sola ne giustificherebbe la realizzazione). Una delle scene madri della Vittorineide sarebbe quella di lui che in preda all’ira scappa dalla Sicilia babba, da quella gente e quei posti che lo soffocano. Per accelerare la pratica inscena perfino una fuitina, un rapimento per amore che nell’uso siciliano rendeva inevitabile il matrimonio per non disonorare la rapita. La sua, e non poteva essere diversamente trattandosi di Vittorini, fu una fuitina dal blasone letterario. La compagna nell’impresa è la sorella di Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel. (Poi la fiction continua che il matrimonio va a rotoli quasi immediatamente).
Vittorini era uno scrittore che come Márquez e McMurtry sapeva raccontare le puttane. Lo fece nel suo primo romanzo, Il garofano rosso, che però non pubblicò per primo a causa della censura fascista. Il libro racconta l’amore scandalosissimo, e non soltanto allora (un secolo fa), tra un adolescente inquieto (Elio, ovviamente, che amava ante litteram le storie tese) e la bellissima prostituta Zobeide, frontwoman del casino di Siracusa. All’argomento cortigiane e dintorni, Vittorini era molto sensibile. Lo testimoniano le pagine ispirate e calienti del Garofano rosso, e lo testimonia anche l’emozione fortissima che provò Elio la prima volta che mise piede alla Scala. Davano quella sera un’opera che lo avvinse e lo travolse. Nemmeno a farlo apposta si trattava della Traviata di Giuseppe Verdi (e quest’ultimo tornerà inopinatamente nel finale di questo pezzo).
Solo adesso mi rendo conto che Andrea Camilleri tenne ben presente anche il Vittorini del Garofano rosso per raccontare le puttane di La pensione Eva (altro capitolo del nostro saggio in fieri), uno dei suoi romanzi più struggenti che gli era stato direttamente ispirato proprio dalla lettura di Memoria delle mie puttane tristi di García Márquez. Lo lesse, gli piacque, gli accese la fantasia e i ricordi, chiamò Antonio Franchini, allora capo della narrativa alla Mondadori, e gli disse: «Io un romanzo come Memoria delle mie puttane tristi ce l’avrei. Che dici, lo facciamo?».
Il contratto fu firmato il giorno dopo.
Il professore di "Memoria delle mie puttane tristi" deve essere un parente stretto del protagonista de "La casa delle belle addormentate" , il racconto di Kawabata nel quale un anziano frequenta una casa di appuntamenti per passare la notte a fianco di giovanissime ragazze vergini che dormono, guardandole ma senza mai toccarle.
Sempre piacevole, originale e stimolante.
Diventa sempre più lunga la lista dei libri da leggere. Mi viene un senso di angoscia.