IL FESTIVAL FAI DA TE - Parte 2
Un instant book con tutte le storie che mi sono venute in mente leggendo le canzoni di Sanremo senza colonna sonora.
(Qui la parte 1 se ve la foste persa)
Le canzoni assumono la tinta di quello che hanno intorno e più leggere sono, più sono camaleontiche. Se intorno c’è tragedia la rispecchiano.
A Sanremo 2024 la canzone che rispecchia di più il contesto attuale è Governo punk dei Bnkr44. Basta il titolo ma anche il verso «Ti pettini i capelli con una calibro 9» fa il suo lavoro.
Le recenti, accorate raccomandazioni del presidente Mattarella sono cadute nel vuoto. Il Festival quest’anno è pieno di armi.
Un esempio per tutti. Click boom! di Rose Villain: «Per me l’amore è come un proiettile... Prendi la mira baby click boom boom boom». E ancora: «Senti il mio cuore fa così boom boom boom. Corro da te sopra la mia vroom vroom vroom». (Chissà cosa avrebbe detto Umberto Saba della rima boom/vroom).
Con tutte queste armi e detonazioni sul palco di Sanremo 2024 sembrerà di trovarsi all’ormai famoso e famigerato veglione di Capodanno di Rosazza con ricchi balli, cotillon e proiettili vaganti, alla presenza del deputato di Fratelli (e Sorelle) d’Italia Delmastro e del deputato, sempre di Fratelli (e Sorelle) d’Italia, Pozzolo.

«C’è una novità, un governo punk» cantano i Bnkr44 surclassando con un solo verso paginate e paginate di editoriali a cura di pensosi (e noiosi senza nemmeno il conforto di una cumbia ad alto volume) politologi. Il governo punk è operativo, solo che al posto dei grandi Sex Pistols abbiamo degli impresentabili Sex Pistola.
E qui è doveroso un omaggio, impensabile e imprevedibile, in questo delirio sanremese, ai Sex Pistols con le parole del loro grande amico Julien Temple: «Non riusciremo mai a capire perché Johnny Rotten, figlio di un gruista irlandese e reduce da una meningite causata dai topi che razzolavano in casa, scrisse un testo come God Save The Queen proprio nel 1977, una canzone che divenne il manifesto del no future». Forse Johnny Rotten fece quello che fece perché qualcuno doveva pur farlo (nel 1977, per la cronaca, al Festival vinsero gli Homo Sapiens con Bella da morire, canzone assolutamente non punk, ma in un certo senso quasi nabokoviana, per restare nei nostri autori di riferimento: «Che sei bella da morire, ragazzina, tu. Sul tuo seno da rubare io non gioco più... A sedici anni non si perde il cuore nemmeno quando provi a far l’amore... Di te rimane solo una maglietta lasciata sopra il letto in tutta fretta»).
Nel mio personale Sanremo i Bnk44 meritano un posto d’onore non solo per la loro impeccabile analisi politologica, ma pure per qualche verso. Uno è «in provincia la nebbia è la stessa dal 2003» che potrebbe essere l’incipit di un racconto, riscritto oggi dal gruppo indie-pop pescarese, dei Dubliners (tanto per citare un’altra volta Joyce, citazione che, spero, mi varrà un’indulgenza in vista del Giudizio Universale Letterario che aspetta tutti noi pennivendoli).
Altri versi di Governo punk sono «Stamattina io mi lavo i denti col gin / metto i soliti jeans». Il dentifricio deve essere finito a Sanremo, consumato tutto dalla Bertè. Il gin usato come dentifricio mi fa venire in mente il console Firmin, il protagonista ad alto grado alcolico (questioni di cuore, la bellissima moglie l’ha lasciato) di Sotto il vulcano, il romanzo in cui Malcolm Lowry vendette la letteratura al diavolo. Ma, a differenza del protagonista della canzone dei Bnk44, il Console vestiva di tweed o di lino, a seconda delle stagioni, giammai di tela.
Si è sempre detto che Sanremo in bianco e nero aveva problemi col sesso. Una malignità gratuita, un pettegolezzo destituito di fondamento. Il 1958, per fare un esempio, fu un’edizione quasi a luci rosse. Nilla Pizzi e Tonina Torrielli, detta la caramellaia di Novi Ligure (e molti spettatori vedendola pensarono che avrebbero accettato volentieri una caramella se fosse stata Tonina la sconosciuta che le offriva), cantarono con sensualità da vietare ai minori: «Son qui tra le tue braccia ancor, / avvinta come l’edera / Son qui respiro il tuo respiro / son l’edera legata al tuo cuor / Sono folle di te e questa gioventù / in un supremo anelito / voglio offrirti con l’anima».
Nilla e Tonina (due ladies Marmalade ante litteram: Voulez-Vous Coucher Avec Moi Ce Soir) avrebbero dovuto vincere a mani basse quell’anno. Però alla fine, forse proprio a causa dell’eccessiva sfrontatezza della canzone di Nilla e Tonina, vinse Domenico Modugno con Nel blu dipinto di blu che diventò l’inno nazionale ufficioso, il più serio concorrente di Mameli fino all’avvento di Azzurro di Paolo Conte.
Se davvero la giuria scelse la canzone di Modugno perché priva di complicazioni erotiche, si sbagliò di grosso.
«Credo che un sogno così non ritorni mai più» canta Modugno. Interpretiamolo questo sogno. Lo ha fatto Gianni Borgna chiamando in soccorso uno specialista del genere. Sigmund Freud scrisse: «Non stupitevi se vi dico che i sogni, sovente così belli, che noi tutti conosciamo e nei quali il volo gioca un ruolo così importante, debbono essere interpretati come aventi per base una eccitazione sessuale generale, il fenomeno dell’erezione».
A volare oh-oh, a svettare oh-oh-oh è l’organo sessuale. Il sogno di Mimmo è un sogno erotico. Modugno trionfò a Sanremo, sradicò edere, diventò celebre nel mondo, celebrando ed esibendo un’erezione. Dal punto di vista della liberazione sessuale il Sessantotto in Italia cominciò nel 1958 sul palco del Festival. (Così come il Sessantotto nazionale, ma questa volta sotto il profilo della ribellione contro l’autorità, cominciò con un’altra canzone, Viva la pappa col pomodoro di Rita Pavone, che instillò nelle menti e nei cuori dei futuri leader studenteschi il germe della rivolta, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe troppo lontano).
A volte tornano (dal Sanremo in bianco e nero) e sono i Ricchi e Poveri. Ormai a ranghi ridottissimi, non alzano bandiera bianca e canteranno nell’edizione 2024 Ma non tutta la vita che comincia con un invito a ballare («Dammi retta scendi adesso in pista») che ricorda un altro celebre invito a ballare. Quello di Gianni Pettenati: «Sai questa sera è festa grande, noi scendiamo in pista subito e se vuoi divertirti vieni qua e ballerai finché vedrai sventolar bandiera gialla». No, la bandiera alzata dai Ricchi e Poveri non è bianca e mi ricordano la scena di Pulp Fiction dove Johnny Travolta, imbolsito e appesantito, ritorna in pista autocitando il Tony Manero della Febbre del sabato sera. «Il tempo passa» scriveva Gabriel José de la Concordia García Márquez in Cent’anni di solitudine. E subito dopo aggiungeva: «Ma poi non tanto».
Nella canzone dei Ricchi e Poveri c’è un lampante doppio senso: «È tutto un fuggi e mordi, un metti e dopo togli». I doppi sensi (intenzionali o meno) abbondano nella storia di Sanremo. Il più celebre e delizioso resta il clarinetto (con la chitarrina) di Renzo Arbore. Quest’anno un doppio senso, credo del tutto involontario, probabilmente un lapsus, c’è nella canzone Finiscimi di Sangiovanni: «Con cosa son rimasto con ’sta nostalgia del cazzo» che potrebbe essere tranquillamente scambiato per un coming out. Anche L’amore in bocca dei Santi Francesi (tra l’altro unica canzone con la parola “amore” nel titolo, Sanremo non è più Sanremo), si presta a qualche fraintendimento.
A proposito di doppi sensi, mi pare una gaffe più imbarazzante quella commessa dagli autori di Fino a qui di Alessandra Amoroso. La ballad comincia in una notte di pioggia e di vento a Roma. Condizioni meteo che rimandano automaticamente a La confessione, canto popolare la cui origine si perde nella notte dei tempi e che fa: «Co sta pioggia e co sto vento / chi è che bussa al mio convento?». A bussare, all’inizio, è «una povera vecchiarella» che si vuole confessare. Il frate confessore la respinge. Poi a bussare è una “povera verginella (o «una bella ragazzetta», a seconda delle versioni) che vuole pure lei confessarsi. Il frate confessore la fa entrare. Dopo una serie di maialate assortite, la canzone finisce così: «È finita la confessione / pija e bacia sto cordone». Allora la ragazza risponde al boccaccesco fratacchione: «Nun so’ cieca e nun so’ orba / questa è ciccia e nun è corda».
Secondo Woody Allen, la pena infernale più grave non andrebbe inflitta ad Adolf Hitler ma all’inventore degli infissi in alluminio anodizzato. Secondo me, una pena ancora più grave ancora andrebbe inflitta all’inventore delle tute in acetato. E una pena più grave ancora andrebbe inflitta a Mahmood, il quale proprio alle tute in acetato dedica la sua canzone (Tuta gold), canzone che, come al solito, sarà tutta un lagna lagna.
Bellissimo e stimolante articolo. Bello vedere condiviso il parere su Mahmoud, un lamentoso eunuco (musicalmente parlando) dell’harem di qualche gran visir di Trebisonda, ma NESSUNO osa dirlo.
comprendere e condividere quasi tutte le sue citazioni mi fa sentire fiero di me, ma non meno sbalordito. Mi consideri iscritto alla sua mailing list.