IL FESTIVAL FAI DA TE - Parte 1
Un instant book con tutte le storie che mi sono venute in mente leggendo le canzoni di Sanremo senza colonna sonora.
Quando Sigmund Freud psicoanalizzò Domenico Modugno. Quando i Sex Pistola salirono al potere in Italia. Quando Fiorella Mannoia diventò la Molly Bloom di James Joyce e Loredana Bertè finì il dentifricio. Quando Emma ammise: «Non ho capito un cazzo» e chiamò l’avvocato. Quando una donna si buttò da un grattacielo (ma non era a CityLife). Quando sul palco dell’Ariston qualcuno cantò «Con questa pioggia e con questo vento (chi è che bussa al mio convento?)». Quando Dieci ragazze per me di Battisti diventò inno nazionale al posto di Fratelli (e sorelle) d’Italia. Quando quando quando... Un instant book con tutte le storie che mi sono venute in mente leggendo le canzoni di Sanremo senza colonna sonora.
Il mio Sanremo personale comincia con un duetto (virtuale) tra Loredana Bertè (Pazza, canzone che è una autobiografia) e Fiorella Mannoia (Mariposa, canzone che è una autobiografia, però non personale come quella della Bertè, bensì dell’intero genere femminile; un pizzico di megalomania non è mai mancato nella cantante che esordì al Festival con Caffè nero bollente).

Loredana: «Sono sempre la ragazza / che per poco già s’incazza».
Fiorella: «Sono la strega in cima al rogo / Una farfalla che imbraccia il fucile».
(Qui vince l’autenticità di Loredana sulla retoricità di Fiorella).
Loredana: «Se anche tu te ne andrai via da me / col cuore che ho spremuto come un dentifricio».
Fiorella: «Sono stata tua e di tutti, di nessuno e di nessun altro».
(La spunta ancora Loredana che ricorda Battisti-Mogol: «Col dentifricio pure trasparente / dove ti fanno dire che illumina la mente». La dichiarazione di indipendenza sessuale di Fiorella suona come un Mannoia Pride).
Loredana: «Io cammino nella giungla con gli stivaletti a punta».
Fiorella: «Con le scarpe e a piedi nudi / nel deserto e anche nel fango».
(Vince il look di Loredana).
Loredana: «Prima dicono: “Basta sei pazza”, e poi / ti fanno santa»
Fiorella: «Mi chiamano con tutti i nomi, / tutti quelli che mi hanno dato».
(Loredana non si fa illusioni sulla sua santificazione corrente. Non dimentica quando la chiamavano Luridona. A Fiorella, nel giro dei musicisti che è cattivello, avevano dato il soprannome M’Annoia).
Loredana: «E mi faccio una carezza perché non riesco a chiederle».
Fiorella: «Ho amato in un bordello, e mentito non sai quanto».
(Loredana resta con i piedi per terra, Fiorella ai limiti della mitomania).
Loredana: «Scusa se ti ho fatto male / forse non sono normale
Fiorella: «Ahia ia ia ia ia iai».
(Un po’ ripetitiva Loredana, il concetto ormai lo abbiamo afferrato. Grande il lamento finale di Fiorella che riscatta tutto. Tenetevi forte: Fiorella Mannoia ha qualcosa della Molly di Joyce. Potrebbe interpretarla, stesa tra i rododendri sul promontorio di Howth, con una rosa tra i capelli come le ragazze andaluse, recitando tutto difilato, sgrammaticato, senza punti e senza virgole, il monologo finale di Ulisse: «Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì ero un fiore di montagna ha detto sì e infatti siamo tutte fiori noi corpi di donna».
Alla fine vince Fiorella con la sua canzone monologo che evoca Molly Bloom, la Penelope di Joyce, il più grande personaggio femminile del Novecento, il secondo è Filumena Marturano, altra monologhista eccezionale che Loredana sarebbe all’altezza di interpretare).
A proposito di donne, decreto nel mio personale Sanremo l’eliminazione senza nemmeno sentirne la canzone di BigMama. Mi è bastato leggere una sua dichiarazione a Tv Sorrisi e Canzoni (il più bel nome di giornale del mondo): «Spero in un podio composto da sole donne: ce lo meritiamo».
Nel mio personal Festival si è aperto un Caso Madame. Madame è la cantante che aveva detto di essere no vax e quindi per me era come morta. Poi, però, l’avevo vista tra il pubblico per il concerto di Paolo Conte alla Scala. E mi avevano detto che era una devota del Maestro. Da quel momento non aspettavo che una occasione per riabilitarla. E forse l’occasione è venuta al Festival 2024 dove Madame è coautrice della canzone di Angelina Mango.
La canzone si intitola La noia come il romanzo di Alberto Moravia, best seller anni Sessanta (quando uscì il libro a Sanremo vinse Romantica di Tony Dallara e Renato Rascel), da cui fu tratto un film che fece scandalo soprattutto per la scena di Catherine Spaak nuda a letto coperta solo da bigliettoni da diecimila lire (che erano grandi più o meno come lenzuoli e metterli nel portafoglio doveva essere un esercizio alla Houdini).

In uno dei versi della Noia (la canzone), tra i più eclatanti del Festival 2024, «Una corona di spine sarà il dress code per la mia festa», ho visto lo zampino di Madame. Se così è, le perdono i trascorsi no vax.
«Una corona di spine sarà il dress code per la mia festa» potrebbe essere la citazione di un altro classico della letteratura, questa volta anni Cinquanta, Lolita di Vladimir Nabokov. Il protagonista Humbert Humbert all’inizio della sua deposizione (il romanzo non è altro che una lunga deposizione) dice: «Signore e signori della giuria, il reperto numero uno è ciò a cui anelavano i serafini, i male informati, ingenui serafini dalle fiere ali. Osservate questa corona di spine».
Un altro passaggio notevole della Noia (la canzone) è il verso: «È la cumbia della noia. È la cumbia della noia. Total». Citazione coreografica, colombiana per l’esattezza, che mi ha ricordato le citazioni di balli sudamericani tipiche delle canzoni di Paolo Conte: «L’ultima carità di un altro mambo»; «Alle prese con una verde milonga»; «Giura che mai rinnegherai il dio del fango, dell’habanera e del fandango». Memore dell’apparizione di Madame alla Scala, mi è venuto il sospetto che ci sia il suo zampino anche dietro «la cumbia della noia». E, magari, anche dietro, ulteriore indizio che quasi forma una prova, «le perline colorate» che occhieggiano in un altro verso della Noia e che è nobile refurtiva proveniente senza ombra di dubbio da Gelato al limon. Qui si paoloconteggia alla grande. Se le mie supposizioni sono giuste, dichiaro chiuso il Caso Madame con assoluzione piena. Total.
Leggere le parole di una canzone senza la musica è un’operazione complicata quanto quella di ricostruire le fattezze di un dinosauro intero a partire da un ossicino della zampa. Lo so. Però anche i testi senza la musica possono dire molto.
In tempi ormai lontani si accusavano gli autori sanremesi di usare sempre la stessa rima: cuore-fiore-amore. Già nella prima canzone vincitrice del Festival (1951, Loredana Bertè aveva un anno e il cuoricino intatto come un tubetto di dentifricio appena acquistato), Nilla Pizzi faceva rimare amore con fiore e con rancore: «Grazie dei fior / son rose rosse e parlano d’amor. / Grazie dei fior / e addio, per sempre addio / senza rancor».
L’accusa era ingiusta per un motivo di carattere squisitamente tecnico. Come ha scritto uno che qualche grande poesia l’ha composta (Umberto Saba): «Mi incantò la rima fiore / amore, / la più antica, difficile del mondo».
Nella storia delle rime sanremesi non c’è solo la rima cuore/fiore/amore. Nel 1956 un paroliere fece rimare «un antico stradivario» con «tutto ciò che è immaginario». Oplà, quasi un salto mortale.
La rima più straordinaria (però non di marca sanremese) nella storia della canzone italiana (come sosteneva Umberto Eco) rimane quella di Francesco Guccini, che ha battuto ogni record facendo rimare “amare” (nel senso di non dolce) con “Schopenhauer”.
L’accusa di eccedere con i cuori, i fiori e gli amori in una manifestazione canzonettistica come Sanremo non ha senso: va contro la sua ragione d’essere. Di che cosa cantiamo se non cantiamo d’amore? Però negli anni Sessanta Settanta i critici del Festival volevano le canzoni di protesta. Con Sanremo ce l’avevano pure i radicali (non nel senso pannelliano poi preso dalla parola) che negli anni Cinquanta si riunivano attorno alla rivista Il Mondo e vedevano nel Festival uno dei capisaldi dell’italianità più deteriore. I radicali del Mondo ce l’avevano anche con gli spaghetti alle vongole, un’altra pratica nazionale secondo loro abominevole.
Uno dei grandi paladini del Festival è stato Gianni Borgna, autore di saggi fondamentali come Le canzoni di Sanremo, il quale agli antisanremesi ricordava sempre le parole di Marcel Proust: «Non disprezzate la cattiva musica. Il suo posto è nullo nella storia dell’arte, ma immenso nella storia sentimentale della società».
E, per i più duri di comprendonio, Borgna aggiungeva una citazione di Pier Paolo Pasolini: «Poche cose hanno una potenza rievocativa pari alle canzonette anche brutte. Se io riascolto i motivi dell’orchestrina di Pippo Barzizza del ’38 o ’39, certi colori, certo violento incombere fisico delle città italiane di quegli anni vengono fuori, in modo struggente, in una evidenza allucinata, proprio dalle note di quei motivi».
Come canta il grande Fossati: «È tutta musica leggera / ma la dobbiamo imparare». E come, più di recente, cantano anche Colapesce e Di Martino: «Metti un po’ di musica leggera perché ho voglia di niente. Anzi leggerissima»).
(Continua…)
Un capolavoro la riabilitazione di Madame!
Che bella recensione . Il festival,quello non riuscirò mai a guardarlo .Amadeus e Fiorello andrebbero bene come animatori in un villaggio turistico o su una nave da crociera .Personalmente le vacanze me le organizzo da me .La realtà è scadente(,cit.Sorrentino) ma il festival è pessimo.