ULTIMA PUNTATA DEL JOKER PIÙ LUNGO MAI SCRITTO: UN PO’ MALINCONICO E UN PO’ A LUCI ROSSE
(OVVEROSIA L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI PUSSY GALORE)
Silvano Calzini scrive: «La butto lì. Perché non fare del “Joker a luci rosse” un format? Magari solo mensile».
Caro Silvano, ecco un nuovo copione di Joker a luci rosse che riparte dall’inizio col detto napoletano ’A fessa ’mmano a ’e criature da cui tutto prese inizio.
Prima scena (dove tutto cominciò).
Beatrice Vitelli: «Non ti scrivo per chiederti la traduzione di ’A fessa ’mmano a ’e criature, ma per segnalarti la versione castigata: La pazziella in mano alle creature».
Per chi non se ne intendesse (di napoletano), ’a fessa è il sesso femminile, e ’e creature sono i bambini.
Seconda scena (dove si palesano imprevedute complicanze calabresi).
Anastasia Macrì: «Devo riconoscere, come ha detto lei, a proposito del detto ’A fessa ’mmano a ’e criature, che quella napoletana è la civiltà superiore! Dalle mie parti, in Calabria (prov. di KR) sa come si chiama il sesso femminile? “U ciuatu”, termine con il quale si indica anche una persona poco intelligente. Devo dire che è sconfortante, considerando la gioia che ci dà! Cari saluti».
Non si scoraggi, Anastasia, in altri posti della Calabria si dice più nobilmente “cunnu”, parente sicuramente di sua maestà l’inglese “queen”. Dio salvi la pazziella.
Terza scena (dove ci si sposta nel passato remoto)
Piera Treu: «Pazziella... e perché no “Rosa fresca aulentissima”. Scoprire il significato remoto del verso dolce stil novo mi stupì moltissimo al remoto tempo in cui accadde. Victor, piccolo cane intrepido, ma di costumi morigerati, mi ha appena detto che non ne sa, e non gliene importa niente».
Per gli antichi poeti provenzali la rosa era metafora del sesso femminile. Lo sapeva Gertrude Stein quando scrisse il verso: «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa»? A quel significato di “rosa” alludeva Umberto Eco intitolando Il nome della rosa il suo romanzo più famoso?
La poesia di Gertrude (l’amica nemica di Hemingway) che si intitola Sacred Emily è bellissima:
Rose is a rose is a rose is a rose
Loveliness extreme.
Extra gaiters. Loveliness extreme.
Sweetest ice-cream.
La rosa fresca aulentissima (profumatissima) di Cielo d’Alcamo, poeta siciliano duecentesco tuttora misteriosissimo, è dunque una pazziella. Tecnicamente, la rosa di Cielo è una sineddoche (o, più precisamente, una metonimia), ma preferirei non addentrarmi nella questione per non fare la fine della prof di liceo classico che trovò sulla parete dell’aula la scritta: “Moana Pozzi è una bella figa” (accadeva negli anni Ottanta e Moana era popolare come Rocco Siffredi oggi).
La prof non si scompose e spiegò alla classe che si trattava di una sineddoche. Il giorno dopo l’anonimo graffitaro corse ai ripari e in aula comparve una nuova scritta: “Moana Pozzi è una bella sineddoche”.
Ho riletto i versi di Cielo D’Alcamo con occhio attualizzante, come per farne un remake contemporaneo. Certe situazioni di Rosa fresca aulentissima si prestano a situazioni da film porno XxxRate. L’inizio, ad esempio, con lui (il giovanotto protagonista della poesia) che si presenta a lei, la ragazza invocata come una rosa fresca e profumatissima (con tutti i sottintesi provenzali del caso), in uno stato di tremenda eccitazione sessuale (siamo a primavera e si sa che la primavera è il più grande afrodisiaco esistente, un viagra naturale), e le chiede di andare subito a letto con lui, di schiudergli la profumatissima rosa. E aggiunge che lei è così bella da essere desiderata da tutte le altre donne (sposate e single). L’irruenza, la sfacciataggine di lui (nonché quella allusione agli amori lesbici) spaventano Rosa (chiamiamola così), che, infatti, lo respinge. Segue un corteggiamento che non ha la leggiadria dei poeti stilnovisti nelle dichiarazioni d’amore, ma caso mai certe movenze da pellicola decamerotica anni Settanta: Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda con Edwige Fenech; Una cavalla tutta nuda con Barbara Bouchet e Don Backy; La bella Antonia, prima monica e poi dimonia con Edwige Fenech e Piero Focaccia, autore anche della canzone dei titoli di testa e coda La mutanda-nda; Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno con Melinda Pillon (e nella cui locandina c’era un blurb di Boccaccio in persona che diceva «Questo Decamerone è meglio del mio»).
La ragazza rifiuta le profferte scostumate del pretendente e, affinché non coltivi ulteriori illusioni, gli comunica che non scoperà con lui nemmeno in cambio di tutto l’oro del mondo. Piuttosto si taglierà i capelli e si rinchiuderà in convento (scena sempre bellissima da girare: con questo l’abbandono delle vanità, del trucco&parrucco, delle lusinghe del mondo). Ma lui si fa forte dell’assioma “prima monica e poi dimonia” e risponde che allora si farà monaco anche lui e così vivranno per sempre felici e contenti in convento.
Lei non cede. Fatti un giro, gli dice, e vedrai che troverai una più bella di me. Ma lui un giro se l’è già fatto. È stato in Calabria, in Toscana, in Lombardia, in Puglia, a Costantinopoli, a Genova, a Pisa, in Siria, in Germania, a Babilonia e per tutta la Barberia. Ma non ha trovato una donna più bella di lei. Questo tour alla ricerca della donna più bella lo girerei alla Lelouche, una carrellata di figure femminili, senza parole, senza dialoghi o voci fuoricampo, soltanto la musica di Un uomo e una donna ad accompagnare le immagini di questa gallery amorosa, di questo catalogo rimasto intonso, di questo book da fotomodelle.
Diciamoci la verità, lui sta volando alto. E, infatti, Rosa non resta insensibile (l’uomo non è di legno, soprattutto alle avvisaglie della primavera, e nemmeno la donna). Però in lei non c’è la curiosità (il vediamo come va a finire) di una Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi. E, infatti, fa il contrario di quello che fa Maria nel film di Bertolucci. Chiede al ragazzo di sposarla. Se Maria avesse chiesto a Marlon Brando di sposarla prima di chiudersi nell’appartamento sfitto con lui, Ultimo tango non sarebbe mai stato girato. Non ci sarebbe mai stata la scena famigerata del burro.
Non ci sarebbe mai stato il finale nella balera e nemmeno il sax struggente di Gato Barbieri.
Insomma, scusate l’ironica brutalità del linguaggio da film decamerotico, lui vola alto e Rosa è come se gli rispondesse: «Sposami e potrai finalmente mettere il tuo diavolo nel mio inferno».
Lui non si dà per vinto (la fretta c’era, maledetta primavera) e giura che non si schioderà da lì, dalla casa della ragazza (che è un castello o, almeno, una bella villa), finché non avrà colto il frutto del suo giardino per cui spasima di desiderio giorno e notte.
Lei se la tira. In linguaggio (ahimé) corrente, dice allo spasimante che non l’ha data né a conti né a cavalieri, e ha risposto picche anche a marchesi e giustizieri. «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!» come disse Napoleone.
Poi la ragazza mette una pietra tombale sulla faccenda. Deve sposarla, se no non se ne fa niente. Altrimenti è pronta a buttarsi a mare pur di levarselo di torno.
Lui risponde con una cosa bellissima (a suo modo), terribile e anche un bel po’ perversa (di fronte a questi siculi del Duecento Rocco Siffredi sembra una mammoletta). Quando sarai annegata, giura lui, cercherò il tuo cadavere che il mare avrà ributtato sulla spiaggia e ci farò l’amore.
Non siamo più nel clima godereccio di Quel gran pezzo dell’Ubalda, tutta nuda e tutta calda. Qui si vira verso tonalità cupe (eros e thanatos, necrofilia). Cielo D’Alcamo non scherzava. Nei suoi versi ci sono, forse, più parole di morte (ammazzamenti e simili) che di amore.
Lo scenario disperato (erotico stomp) evocato da lui (cadavere, spiaggia, eccetera) sconvolge Rosa che si fa il segno della croce dicendo: «In nome del Padre del Figlio e di San Matteo, so che non sei eretico o ebreo e non ho mai sentito parole così. Se la femmina è morta, ci perdi il sapore e il piacere».
Ora, Paolo Conte mi perdonerà, ma il protagonista della nostra storia dice cose, rivolte a Rosa, che corrispondono in pieno alle parole scritte dal Maestro nella sua canzone più (ironicamente, ma non troppo) arresa all’amaro mistero dell’amore. Quella canzone che fa: «Bamboolah, sono un pesce da friggere. / Bambolaah, sono pazzo di te. / Bamboolah, sono nato per perdere, / ciondola la mia sagoma e va, / ciondola come palma che dondola…».
Il giovanotto le dice che si sente un pesce preso all’amo e lei si scioglie (la musica di Paolo Conte colpisce ancora con la precisione di Cupido). Si scioglie al punto da confessare al pretendente, pronto a macchiarsi di necrofilia pur di averla, che anche lei lo ama e lo ama «con cuore da paladino» (a intendere la nobiltà dei suoi sentimenti). Però tignosamente e burocraticamente insiste sul matrimonio.
A questo punto salta ogni schema (anche io sono logorato dalle schermaglie di Rosa) e lui le prova tutte come una squadra di calcio che vuole vincere ed è ormai in zona Cesarini. Lui le dice (schema Rettore di Dammi una lametta): «Prendi questo coltello nuovo di zecca, vergine. Tagliami la gola. Non ci metterai molto tempo. Fallo, per carità».
Poi tenta un altro schema Rettore (quello del cobra che non è un serpente) e la implora: «Fai quello che desidero, amica bella, perché l’arma mi sta diventando amara insieme con il cuore».
Lei ha compassione per lui, ma non del tutto e dice: «Lo so che l’arma ti duole, che soffri come un uomo in preda all’arsura. Ma non si può fare in nessun altro modo: se non hai un Vangelo su cui giurare di sposarmi, non mi potrai avere. Puoi anche tagliarmi la testa, ma le cose non cambieranno».
E qui lui sfodera un gioco di prestigio: «Casualmente un Vangelo ce l’ho qui in tasca. L’ho rubato prima in chiesa approfittando che il prete non c’era. E sul Vangelo ti giuro che mai ti tradirò. Ora, ti prego, accontentami; perché l’arma mi si sta assottigliando».
Ormai siamo al festival del doppio senso. Sembra di essere al Gambrinus all’epoca d’oro dei Cafè chantant napoletani.
L’ultima battuta tocca a lei: «Mio signore, ora che hai giurato, mi sento tutta un incendio. Sono qui davanti a te, non mi difendo più. Se ti ho disprezzato, ti chiedo perdono, mi arrendo. E ficchiamoci a letto alla buonora, perché così è scritto nel nostro destino».
… e continuavano a mettere lo diavolo ne lo inferno.
THE END
Per chiudere (ma mai definitivamente) il discorso sui nomi delle rose, delle pazzielle e così via, ci affidiamo a un’autorità come Ian Fleming (che non fu soltanto l’inventore di James Bond ma anche, e non mi stancherò mai di ricordarlo, uno degli uomini che fecero perdere la guerra a Hitler, cosa per cui merita la gratitudine sempiterna del mondo intero).
Fleming è uno scrittore di cui si possono dire molte cose buone. Che, per esempio, i titoli dei suoi libri sono bellissimi, come pensa anche il suo collega e continuatore Anthony Horowitz. Effettivamente c’è l’imbarazzo della scelta: Dalla Russia con amore, Si vive solo due volte, Vivi e lascia morire, Il grande slam della morte, Goldfinger.
Un’altra specialità in cui eccelle Fleming sono i nomi dei personaggi (arte spesso sottovalutata). Ho ritrovato l’altra mattina la mail che il lettore Francesco Ghio di Livorno mi spedì qualche anno fa. Scriveva: «Probabilmente vado fuori tema sia perché parlo di letteratura non italiana sia perché (forse) non si tratta di vera letteratura, ma a proposito dei romanzi dove compaiono personaggi i cui nomi già in sé contengono un romanzo vorrei citare Ian Fleming e il suo 007. Perché, dunque, non ricordare Liz Moneypenny, Auric Goldfinger (tutti si ricordano a cosa ambiva il perfido), Oddjob suo malvagio killer “tuttofare”, Honeychile Rider, Pussy Galore, Dr. Julius No (che c’è di più negativo di un “no”?), Dr. Shatterhand (alias Stavro Blofeld), Jed Midnight (gangster) oltre, ovviamente, agli enigmatici M e Q? Anche presi al di fuori della narrazione i nomi ci direbbero subito chi sono gli amici di Bond e i nemici, arrivando pure a immaginare la brutta fine che li attende».
Goldfinger (1959) ha un bellissimo incipit (per cui delirava Umberto Eco e io non sono da meno): «Seduto in fondo alla zona partenze dell’aeroporto di Miami con due bourbon doppi in corpo, James Bond pensava alla vita e alla morte».
Ma non è solo l’incipit a stregare in Goldfinger. A stregare ancora di più è uno dei personaggi, una boss della malavita newyorchese con un passato circense (faceva la trapezista assieme a un gruppo di amiche). Ma il lavoro nel circo si è rivelato un fallimento e lei ha deciso di riconvertire le virtù atletiche sue e delle sue compagne nel business criminale mettendosi a capo di una banda di donne ad Harlem. Si chiamano The Cement Mixers e sono lesbiche. La banda viene ingaggiata da Auric Goldfinger nel suo folle progetto di rubare tutto l’oro di Fort Knox.
Personaggio favoloso che, ancora più favolosamente, si chiama Pussy Galore. Ed eccoci arrivati alla pazziella nella declinazione e dizione british di Ian Fleming. Pussy è il nome colloquiale e scherzoso del sesso femminile in inglese (What’s New Pussycat? cantava indimenticabilmente Tom Jones).
Pussy è, dunque, il nome della cosa, ma nella fantasmagorica e rutilante anagrafe fleminghiana non poteva bastare. Ed ecco allora il cognome: “Galore”, che vuole dire “in abbondanza”, “a bizzeffe” “a iosa” “a fiumi”. L’ex trapezista lesbica si chiama dunque “Fica a volontà”.
Dapprima Pussy Galore, essendo al servizio di Goldfinger, è nemica di Bond, ma poi si pente e lo aiuta a sconfiggere i cattivi. Alla fine dell’avventura Bond dà uno dei suoi sensualissimi baci a Pussy spinto dalla curiosità di vedere se è veramente e ineluttabilmente lesbica quanto si vocifera. I due finiscono per innamorarsi.
Nel film che fu tratto dal romanzo non si insiste particolarmente sui gusti sessuali di Pussy. Lei non è più una trapezista, ma la capa del Pussy Galore's Flying Circus, un gruppo di aviatrici, e pilota l’aereo personale di Goldfinger. Anche qui, come nel romanzo, passa dalla parte di James e, al termine dell’avventura, i due, dopo il solito atterraggio di emergenza nell’oceano, fuggono assieme su una zattera.
Nel 2015 Anthony Horowitz, già citato a proposito della bellezza dei titoli di Fleming, scrisse uno 007 apocrifo, Trigger Mortis, sequel di Goldfinger. Pussy Galore e Bond ormai fanno coppia fissa e abitano nell’appartamento di lui a Chelsea. Bond viene incaricato di una nuova missione e deve sventare il tentativo da parte dei russi di uccidere un campione inglese di automobilismo durante una gara al circuito di Nürburgring. Per prepararsi all’incarico Bond prende lezioni di guida sportiva da Logan Fairfax, una bellissima pilota da corsa. Intanto, Pussy viene rapita da emissari della mala newyorchese che vogliono punirla per aver tradito Goldfinger. La vendetta escogitata dai goldfingeriani è raffinatissima (e citazionista): Pussy viene verniciata d’oro come era già successo, nella più celebre scena del film, a Jill Masterson che poi morì soffocata. In maniera spettacolare, lanciando bottiglie Molotov, Bond giunge in tempo per eliminare i gangster e salvare Pussy.
Il finale è agrodolce. Pussy si comporta da ingrata e pianta in asso il suo salvatore andando via con una nuova amica, che altri non è che Logan Fairfax, la pilota che sta istruendo 007 in vista della nuova missione. Chiusa la parentesi, romantica ed etero, bondiana, Pussy ha deciso di tornare ad Harlem, dove era il quartiere generale della sua banda, e ai vecchi amori.
Pussy Galore è stata immortalata sullo schermo da Honor Blackman, secondo me la più affascinante delle bond girl. So di essere in minoranza. La bond girl più affascinante è considerata da sempre Ursula Andress. «Ho sognato di essere il collant di Ursula Andress» disse Woody Allen interpretando in pieno i sentimenti della popolazione mondiale maschile (e non solo) all’epoca. Ma non posso dimenticare l’emozione provocata dalla’ apparizione di Honor Blackman a un James Bond, intontito e confuso dopo aver subito un’aggressione quasi mortale.
Bond: «Lei chi è?»
Pussy Galore: «Mi chiamo Pussy Galore».
Bond: «Forse sto sognando».
Sì, è un nome da sogno.
Meraviglioso, come sempre!
Magnifico! Si vede che il Joker è molto portato per il genere. Mi permetto solo un paio di osservazioni sulle "Bond girls". Tutte bellissime. Niente da dire. Ma io non tradirei mai Miss Moneypenny .
E poi lo vogliamo dire? La "Palmer girl" Samantha Steel, alias Eva Renzi, di "Funerale a Berlino" se le mette tutte nel sacco.