SUPER JOKER A LUCI ROSSE SHOCKING PARTE 2/3
RACCONTO A METÀ STRADA TRA UN POEMA WESTERN EPICO DAL TITOLO «LARRYEIDE” E UN SAGGIO ACCADEMICO INEDITO DAL TITOLO “SCRITTORI & PUTTANE”
Ed ecco, come contenuto speciale di questa Larryeide, l’intervista che feci a Camilleri in occasione dell’uscita della Pensione Eva e che è stata poi ripubblicata come prefazione alla nuova edizione del romanzo uscita da Sellerio.
Il nome esatto pare che sia «Camilleròmani». Ma è accettata anche la versione «Camilleròpati» e, persino, la variante «Camilleròfagi». Sarebbero i patiti dei libri di Andrea Camilleri, il più straordinario fenomeno letterario ed editoriale italiano dell’ultimo decennio. I Camilleròmani costituiscono, secondo Ornella Palumbo nel saggio L’incantesimo di Camilleri, «una moltitudine, felicemente trasversale quanto a età, sesso, estrazione socio-culturale e nazionalità».
La Camilleròmania è un’epidemia planetaria. Così Ornella Palumbo ne descrive i sintomi: «Le cifre parlano chiaro: con dieci milioni di copie vendute, il fenomeno delle copie contraffatte, il mercato nero, centoventi traduzioni, persino in coreano e giapponese, Camilleri è uno degli autori più letti del mondo».
Per farsi un’idea della grandiosità del fenomeno basta sfogliare le 400 pagine del meraviglioso volumetto I libri di Andrea Camilleri (pubblicato da Sellerio per gli ottant’anni dello scrittore) che raccoglie tutte le sue copertine: dall’inglese The Terracotta Dog (An Inspector Montalbano Mystery) alla tedesca Der zweite Kuss des Judas (Historischer, Kriminalroman), alla francese L’excursion à Tindari (Une enquête du commissaire Montalbano).
Eppure Camilleri in Italia un po’ lo snobbano (escluso il qui presente, ovviamente). Scrive Ornella Palumbo che «al travolgente favore del pubblico», incontrato dai libri di Camilleri, non corrisponde «la valutazione della critica, spesso perplessa». (Visto quello che si intende per critica in Italia sarei perplesso se non fossero perplessi).
Per nulla perplesso, Camilleri continua a scrivere e pubblicare libri. Sono a casa sua a Roma, in via Asiago (mitico indirizzo della Rai, che si trova proprio qui di fronte e dove lo scrittore ha lavorato una vita), nella stanza, accanto alla cucina, che gli fa da studio. Sul tavolo ci sono le bozze de La Pensione Eva, il nuovo romanzo che sta per uscire da Mondadori e che non mi ha lasciato perplesso, anzi. È la storia di Nenè che a 12 anni scopre che c’è un posto (la Pensione Eva, appunto) dove «i màscoli si possono affittare fìmmine nude». E scopre anche, grazie alla cugina Angela di due anni più grande, il gioco del dottore e, subito dopo, su proposta di Angela, il gioco inverso: quello dell’infermiera. Con la scusa del caldo che fa nel «tettomorto» (il solaio), teatro delle operazioni, l’infermiera Angela si leva anche lei i vestiti e si «stinnicchia» sopra Nenè. Ma poi Angela è costretta a sposare un uomo che non ama ed esce dalla vita di Nenè con il suo profumo «di cannella e di noce moscata».
Prenderà il suo posto la vedova Argirò (che profuma invece di zagara), madre di un compagno di scuola di Nenè, e l’immagine della vedova appena uscita dalla vasca da bagno, avvolta in un asciugamano, che intona «a vucca chiusa» Amapola, prelude alla definitiva iniziazione sessuale del sedicenne Nenè.
Seguirà la frequentazione da parte di Nenè della Pensione Eva, delle ragazze che vi alloggiano (Erminia Davico, in arte Iris; Emanuela Ritter, in arte La tedesca; Grazia Bontadini, in arte La bolognese; Maria Stefani, in arte Lupa...), della Signura, la severa maîtresse, mentre la guerra avanza, gli alleati sbarcano in Sicilia, Nenè va militare. Il tutto narrato con una felicità e una facilità narrativa tali da far pensare che il caso Camilleri (malgrado il successo mondiale, le centoventi traduzioni, le perplessità della critica) sia tutt’altro che chiuso.
Arrivati alla fine del romanzo c’è una nota: «Questo scritto intende essere semplicemente una vacanza narrativa che mi sono voluto pigliare nell’imminenza degli ottanta anni. Non è né un racconto storico né un racconto poliziesco, è un racconto fortunatamente inqualificabile. Oltretutto, alla lettura credo che presenti difficoltà minori di altri miei romanzi. E persino il titolo è diverso dai miei soliti. Desidero avvertire che il racconto non è autobiografico, anche se ho prestato al mio protagonista il diminutivo col quale mi chiamavano i miei famigliari e i miei amici. È autentico il contesto. E la Pensione Eva è veramente esistita, mentre sono del tutto inventati i nomi dei frequentatori e i fatti che vi sarebbero accaduti».
Bene, Camilleri, cominciamo dal fatto che La Pensione Eva è un libro diverso dal solito. In che senso?
«Mentre lo scrivevo è successa una cosa strana. Se lo volevo riportare dentro al mio registro, mi fermavo, diventava come una strada obbligata e la cosa mi dava molto fastidio. Allora ho dato da leggere i primi due capitoli a mia moglie. Rosetta è l’unica persona ormai che mi resta alla quale far leggere le cose che scrivo. Prima avevo degli amici: Ruggero Jacobbi, Dante Troisi, Niccolò Gallo. Non ci sono più. E mia moglie disse: ti stai costringendo dentro la tua scrittura come una sorta di scarpa stretta, mi sa che non ci accucchia molto. Raccontalo come se fosse prima, prima di essere diventato uno scrittore».
Prima del caso Camilleri...
«Sì, prima del caso Camilleri».
Torniamo alla nota. Di solito avvisi di questo tenore (ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale) significano esattamente il contrario. Lei nella nota dice: non è un romanzo autobiografico.
«Invece lo è. Perché non è una storia inventata di sana pianta. Io mi ricordo che noi ragazzi negli anni Quaranta eravamo arrapatissimi. Non c’era la libertà che c’è oggi. Quando riuscivi di straforo a baciare una ragazza era un avvenimento che faceva epoca. Mi ricordo la prima volta che baciai una ragazza. Avevo 15 anni. Lei sapeva come sarebbe finita e s’era messa il rossetto. Dopo quel bacio appassionato dovetti adoperare il fazzoletto per pulirmi la bocca. Il problema era: come fare scomparire il fazzoletto?».
Sembra l’Otello. E come fece?
«Tornando in macchina con mio padre da Agrigento, dove era avvenuto il fattaccio, gli confessai che ero stato a baciare questa ragazza e che avevo il fazzoletto sporco di questa gloriosa cosa. Mio padre disse: per carità, dallo a me che se tua madre scopre un fazzoletto tuo sporco di rossetto fa un casino! Io dissi: papà, ma non lo fa a te? No, a me non lo fa. E allora io diedi il fazzoletto a mio padre. La cosa logicamente oggi dovrebbe essere alla rovescia: cioè il padre dà il fazzoletto al figlio. Ma allora andava così».
A un certo punto del romanzo Nenè con il suo inseparabile compagno Ciccio comincia a frequentare la Pensione Eva. Non ha ancora 18 anni. Anche questa è autobiografia?
«La Pensione Eva di Porto Empedocle (era veramente una villetta incantevole), venne presa in gestione dal padre di un mio compagno, il loro nome vero non lo dirò. Questo compagno disse a me e a Ciccio Burgio, amico mio del cuore: ragazzi, se volete venire, la Signura vi dà il permesso, però siccome non avete 18 anni (la legge era severa) vi dà il permesso di venire il lunedì, il giorno di chiusura, così venite come se fosse una casa privata».
Una visita di cortesia.
«Sì, e infatti noi ci organizziamo di conseguenza. Portiamo del pesce, del vino, eccetera, mangiamo con loro, chiacchieriamo con loro».
La Signura era davvero una ex professoressa di greco e di latino che dava, tra l’altro, ripetizioni in queste materie al figlio del gestore, come si dice nel libro?
«Proprio così».
E cosa aveva fatto per perdere il posto, per essere radiata dalle scuole?
«Non l’ho mai saputo, l’avrei scritto se l’avessi minimamente saputo. Né mi pareva giusto inventarmelo in una situazione così».
Insomma, come in una parabola laica, comprate il pesce e il vino e poi cosa succede: il miracolo?
«Il mio compagno era stato chiaro: la Signura ha detto che se le ragazze vogliono va bene ma di loro iniziativa, non hanno l’obbligo. Ora il fatto di poter passare delle serate con delle ragazze era una cosa inimmaginabile, una vera fortuna. E così lentamente capii che andavo lì ogni lunedì sera per la voglia di stare a parlare con delle ragazze liberamente, lentamente capii che ricchezza mi trovavo tra le mani».
Una scuola di vita, come scrive nel libro.
«La cosa che posso dire con assoluta certezza è che i discorsi che avvenivano tra di noi non erano discorsi grassi, come si usa dire. Erano di tutt’altro genere. E non erano neanche discorsi che muovevano alla pietà (io ci ho un figlio e via lacrimando). No, erano normalissimi discorsi con delle professioniste che potevano essere manicure, pedicure, insomma che facevano qualcosa a contatto con i maschi».
Dal romanzo viene fuori l’impressione di un sesso un po’ medicale, asettico, lo dico perché lei sottolinea più volte l’odore di disinfettante che aleggiava in quelle camere...
«Era l’odore del permanganato. C’erano queste regole del lavarsi prima. Era tutto molto medicale, come dice lei. Se non era per i pessimi profumi che adoperavano queste ragazze... Terribili. Io ho perso la memoria di questi profumi via via che sparivano i calendari dei barbieri».
Era quello il profumo dei casini?
«Era quello. Io mi sono ritrovato fino a 25 anni fa a odorare uno di questi calendarietti e ritornare con la memoria...».
Proust puro... Dunque, quello era l’odore del peccato.
«Proprio così, tanto è vero che quando ho cominciato a fare il regista in televisione appena avevo un po’ di pausa andavo appresso alle ballerine, me ne stavo nel camerino grosso delle ballerine solo per risentire questo odore di profumo pessimo, di sudore femminile che era una cosa meravigliosa».
Nel libro Nenè legge Conrad, Melville e Maigret, gli stessi libri che lei leggeva nella biblioteca dello zio Alfredo. E poi troviamo questa cosa molto sottile: lei nasce a Porto Empedocle il 6 settembre 1925 nel momento in cui la statua di San Calogero esce dalla chiesa per la processione... Be’, San Calogero nel romanzo ha una parte strepitosa, appare ripetutamente a una delle ragazze della Pensione Eva...
«Guardi in questo paradiso assolutamente deserto che è il mio studio, lei può vedere un San Calogero ottocentesco regalatomi da Elvira Sellerio (mi indica una statuetta sulla libreria), e guardi qui (mi mostra una cartolina poggiata sul tavolo), questo è l’ultimo San Calogero dell’ultima festa, là sopra vede un’altra statuetta di San Calogero nera...».
Lei ha detto di osservare un unico culto, quello di San Calogero.
«Culto unico. Quando hanno festeggiato a Porto Empedocle i miei ottant’anni (che avvenivano il giorno dopo la festa di San Calogero) hanno lasciato le luminarie della sua festa per illuminare il paese. Ho usufruito delle luminarie di San Calogero».
Questo sì che è un grande onore! Altro che Nobel!
«Ma figurati».
Qui siamo alla processione, qui siamo a Sant’Andrea. Ma torniamo alla vita parallela tra lei e il Nenè del romanzo. A un certo punto Nenè va a fare il militare ad Augusta, non gli danno nemmeno una divisa (sono finite) ma un semplice bracciale di riconoscimento, intanto c’è lo sbarco alleato.
«Andò proprio come racconto nel romanzo. La mia classe, 1925, terminò le scuole verso il 15 di maggio, senza esami di Stato, venimmo promossi o bocciati per scrutinio. Io venni promosso. Gli ultimi giorni di scuola sentivamo le cannonate dalle finestre aperte, le cannonate di Lampedusa, e c’erano continui bombardamenti. Io avevo passato la visita di leva. Mio padre era ispettore alla Capitaneria di porto, avrei potuto benissimo farmi riformare. Però tutti i miei compagni erano stati fatti abili e mi vergognai. L’ufficiale medico mi sussurrò: che vogliamo fare? Dissi: sono abile, mi faccia abile. Va bene, abile. Queste visite di leva terribili, che stai nudo e siccome erano tempi di guerra e mancava tutto mi scrissero, con la matita copiativa, l’altezza e il peso direttamente sul petto, tipo maiali. Poi mi chiamarono alle armi e quello che successe è quello che dico nel libro».
E a un certo punto da Augusta tornò a piedi e in bicicletta a Porto Empedocle dove al posto dell’odore di noce moscata o di zagare trovò un terribile odore di morti, di cadaveri.
«Madonna. Ma c’è una cosa che non ho raccontato perché mi pare così importante da farne un racconto a sé, che mai farò. Passai da una zona dove era avvenuto un combattimento. Era una zona completamente devastata, con gli alberi tagliati, bruciati dallo scontro a fuoco. C’erano cinque o sei carrarmati nostri e, proprio come avrei visto poi nei film, dalla torretta di un carrarmato si sporgeva il cadavere di un soldato italiano, la cui giacca gli si era quasi rovesciata sulla testa e rovesciandosi aveva lasciato cadere delle carte. Attirato, come ero allora e come continuo a essere, dalle carte, agguantai questo mucchio di lettere e me lo portai a Porto Empedocle e lì lo lasciai. Credo di averle lette queste lettere un anno dopo e le conservo tuttora. Erano le lettere, con tanto di indirizzo, che la moglie di quel carrista romano scriveva al marito e raccontava la storia di un tradimento che lei gli aveva fatto».
E gliele spediva al fronte? Che crudeltà, Dio mio.
«Sì, perché lui aveva mandato un suo amico carissimo a salutare la moglie e a portarle un regalo e lì era finito a schifìo».
Ah, addirittura con il messaggero. Altro che ambasciatore non porta pene, avrebbe detto Totò.
«La donna scriveva: allora tu mi domandi perché l’atteggiamento del tuo amico è cambiato? Bene, te lo dico... io ce l’ho ancora queste lettere, una storia incredibile beccata in quel momento. Poi proseguii per Porto Empedocle».
Dove non trovò più la Pensione Eva distrutta da un bombardamento.
«Sì, perché era proprio sul porto, non c’era più».
Il romanzo si potrebbe intitolare Memoria delle mie puttane tristi, come quello di Márquez.
«Da anni pensavo a queste storie di casino ma, non so, avevo sempre avuto un certo pudore a scriverle. Quando uscì Memoria delle mie puttane tristi io dissi ad Antonio Franchini della Mondadori: io ci avrei delle storie di casino. Come delle storie di casino? Gliele ho raccontate. Scrivile subito. È stato Márquez a darmi il coraggio».
Potrebbero accusarla di avere nostalgia dei bordelli.
«Onestamente non ne ho nessuna. Lei sa come finirono i casini? Finirono con uno sketch molto italiano. Ugo Zatterin dette notizia al telegiornale della chiusura delle case chiuse e ne parlò per tre minuti senza citare mai case chiuse, puttane o cose del genere, per cui gli italiani non seppero che cosa si era chiuso. È meraviglioso».
Una parte dei suoi lettori magari l’accuserà di aver scritto un romanzo di sesso, pornografico.
«In genere i lettori sul sesso sono molto negativi. Mi hanno scritto decine di lettere a proposito. C’erano delle povere signore settantenni che mi hanno scritto dopo La presa di Macallè: anche mio marito è diventato porco in tarda età, lo diventa anche lei?».
Poveri mariti. Senta, il primo bacio a 15 anni con la storia del fazzoletto sporco di rossetto. E la prima volta?
«A sedici».
Con una vedova come Nenè?
«No, per la verità non è andata così. Come andò veramente l’avevo raccontato nella prima stesura ma mia moglie disse che era una cosa così intima mia e che dovevo modificarla. Così la modificai con quella che è stata la seconda esperienza, quella della vedova».
E quindi la prima volta?
«Noi a Porto Empedocle avevamo questo caffè Ruoccolo che era in concorrenza con il caffè Castiglione davvero imbattibile dal punto di vista dei gelati e dal punto di vista dei biliardi bellissimi che aveva. Allora il signor Ruoccolo per incrementare la clientela ebbe la bella pensata di far venire delle bariste femmine, e non delle bariste così, delle bariste come minimo triestine. La prima che arrivò era molto bella e aveva i modi di una gran dama, tanto è vero che i clienti erano un po’ impacciati, intimiditi perché era proprio una austro-ungarica o qualcosa di simile. Correttissima, non dava confidenza, niente e quindi l’unica era pigliarsi il caffè e starsela a guardare. Nessuno osava. Così durò sei mesi, divenne l’amante e poi la moglie di uno che fece una certa carriera politica non indifferente. Fine. Naturalmente il buon signor Ruoccolo capì di avere sbagliato, che non era quello il genere. Allora fece venire una barista giovanissima che si chiamava Mariuccia, che era tutt’altro tipo, con lei potevi ridere, scherzare, fare i doppi sensi...».
Sempre nordica, però.
«Anche lei di Trieste. Come si dice: se no xe mati no li volemo, se non sono triestine niente. E arrivò questa Mariuccia. Però non si sapeva di suoi rapporti con uomini. Confidenza estrema ma arrivare a stringere, niente. Allora, quando venne l’estate, scoprimmo io e il mio amico Ciccio che Mariuccia sotto il camice: niente».
Non c’è più grande investigatore di un ragazzo arrapato...
«Raggi X. Questa è nuda sotto ma quando esce è vestita, allora vuol dire che nel retrobottega si spoglia, si veste e noi dobbiamo restare dentro il retrobottega quando lei finisce di lavorare. Nel retrobottega c’era pieno di sacchi di caffè e poi c’era una finestrella dalla quale noi potevamo, quando lei chiudeva la saracinesca a mezzanotte e mezza, uscire se rimanevamo chiusi. Così verso mezzanotte fingendo di andare in bagno ci sistemammo dietro i sacchi e lì restammo. Sentimmo tutte le operazioni di chiusura: abbassò la saracinesca, venne nel retrobottega, accese la luce, c’era un osceno lavello, lei aveva i suoi vestiti sopra una sedia, cosa che notammo subito, si levò questo camice bianco. Era nuda».
Era bionda?
«Bionda vera. Superato il momento di morte, perché eravamo a un passo dalla morte, con Ciccio ci sorreggevamo a vicenda, cercando di non ansimare per non farci sentire. Lei ci volgeva questa schiena bellissima e si lavava, poverina, come poteva. A un certo punto, qualcuno di noi due, non so chi, dovette gemere, perché lei si fermò, si voltò, non vide nessuno e tornò a lavarsi. Poi arrivò un momento, mi deve credere su quanto ho di più caro, che lei si voltò di nuovo solo che io non ero più dietro i sacchi. Ero uscito da dietro i sacchi e mi avvicinavo a lei, a quattro zampe, e lei rimase attonita a guardarmi, ghiacciata proprio. Io mi avvicinai, alzai la testa e baciai il pelo. Allora lei mi prese, mi alzò in piedi: ma che sei pazzo? Ma ora ti scoprono. E io: io non posso stare senza di te. E lei: guarda, ora non puoi più uscire dalla porta. Io: sì, l’avevo previsto. Lei: vattene dalla finestra. Domani sera vieni a trovarmi, all’una di notte. Era mossa a una pietà estrema. Io uscii dalla finestra dimenticandomi di Ciccio che era rimasto dietro. Lei uscì, chiuse. Ciccio uscì anche lui dalla finestra. Che t’ha detto? Di andarla a trovare. L’indomani sera ci andai e fu la prima volta che facevo all’amore con una ragazza, di una tenerezza, di una cosa. Questo non so perché a Rosetta è parso troppo personale. Allora ho parlato del secondo episodio, della vedova».
Camilleri, mi permetta di ringraziarla anche di questo superbo racconto all’impronta. Io non sono perplesso, sono sgomento davanti alla sua capacità narrativa. E mi faccia segnalare ai lettori la bellezza stupefacente del finale della Pensione Eva, un finale che non dirò per non rovinare l’emozione, un finale che mischia una disperata e tenerissima storia d’amore e morte con un rito quasi cannibalesco (e però dolcissimo), mentre intorno si sente un profumo (uno sciauro, come scrive lei) «di mentuccia, cannella e chiodi di garofano», che era il profumo di Siria, una delle ragazze della Pensione Eva. Consideri, la prego, questa non una intervista ma una processione. In suo onore e dell’arte del romanzo.
Finita l’intervista e prima di tornare a McMurtry e lasciare Vittorini (che avrebbe delirato, lui che considerava gli scrittori americani i più grandi di tutti, per uno scrittore come McMurtry) è giusto rendergli un ultimo omaggio con una citazione della prima pagina del Garofano rosso, una pagina che crea un’atmosfera (come diceva – sia consentito un piccolo “come eravamo” pubblicitariamente parlando – Gino Cervi nella réclame immortale del brandy Vecchia Romagna Etichetta Nera). E, citando Cervi, il pensiero corre a Simenon e a Maigret, due nomi che ricorrerebbero centinaia di volte nel saggio Scrittori & puttane.
Ecco l’ouverture del tormentato primo romanzo di Vittorini: «Aspettavamo la campana del secondo orario, tra undici e mezzogiorno, pigramente raccolti, sbadigliando, intorno ai tavolini del caffè Pascoli & Giglio, ch’era il caffè nostro, del ginnasio-liceo, sull’angolo di quella strada, anch’essa nostra, con la via principale della città, dai borghesi detta Corso e da noi Parasanghea. I più fortunati mandavano giù l’una dietro l’altra granite di mandorla, la più buona cosa da mandar giù ch’io ricordi della mia infanzia; e c’era la tenda rosso marrone che bruciava di sole come un sospeso velo di sabbia sopra i tavolini. C’erano discorsi di grandi parole, di grandi speranze, e c’erano i pettegolezzi scolari sulle medie, i temi in classe, i professori e i compagni sgobboni».
Interrompo momentaneamente la stesura del pezzo per andare a mia volta a mangiare una granita alla mandorla da Marciante, la pasticceria a due passi dal Duomo di Ortigia. La si può gustare seduti su una delle due panchine all’esterno della bottega oppure sul divanetto all’interno. Fuori o dentro che sia, va accompagnata sempre con una brioche calda.
Maestro grazie per questo magnifico ricordo.
'Giovanotti, in camera!'