Le mamme so’ mamme (una pagella)
Antonio Franchini scrive: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza».
Di solito a una madre si scrivono cose così: «Sarai una statua davanti all’eterno... e avrai negli occhi un rapido sospiro» (Ungaretti). Oppure: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...» (Pasolini).
Antonio Franchini, invece, scrive: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza».
E ribadisce: «Mi rendo conto che l’odore materno è complesso e ha tante sfumature e i figli piccoli lo cercano su cuscini e vestiti, e crescendo ancora lo riconoscono, affievolito dal tempo, sugli abiti vecchi e negli armadi stipati della biancheria dei genitori defunti, e mi chiedo quanto abbia pesato su di me che l’odore di mia madre fosse una puzza e quanto abbia contribuito a un’avversione che dura da sempre». (L’odore è causato da un taglio chirurgico chiuso male).
A questo punto dovrebbe entrare in scena lei, una donna con i capelli neri, procace, lo sguardo deciso, il piglio sicuro. Avanzare sul proscenio buio e con voce, dapprima orgogliosa e poi via via quasi sognante, dichiarare con l’aria di chi è sottoposto a un giudizio non accettato, non riconosciuto:
«Io mi chiamo Angela Izzo.
Sono nata a Cautano, un piccolo paese in provincia di Benevento.
Discendo dagli antichi Sanniti e appartengo alla razza degli sgherri.
A me me piace:
Il peperoncino
La frittura di pesce, alghe e cecenielli
I panzerotti e le paste crisciute
L’aglio e olio, e la cipolla
Gli spaghetti a vongole
Il ballo
’O pecorino
I gamberi, le alici e le triglie
Le cozze
La pizza
La lingua latina
Il colore giallo».
Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini (Marsilio) è un pas de deux che comincia con una revolverata esplosa in piena faccia, un oltraggio d’impronta celiniana alla figura convenzionalmente più venerata (quella materna). Un incipit già memorabile («Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza») eppure impronunciabile, inascoltabile, forse irredimibile, che potrebbe essere l’incipit di una anti-Ave Maria, una Ave Angela, non piena di grazia, non termine fisso d’eterno consiglio.
Il padre di Angela, il nonno del narratore, si trasferì a Napoli dalle montagne del Sannio (precisamente dai luoghi dove agli antichi romani invincibili fu inflitta l’onta delle Forche Caudine, da qui una certa fierezza di stirpe) per diventare uomo di fiducia in una ditta tessile. Nel 1943 la tubercolosi porta via il ragionier Izzo (diploma mai conseguito, il titolo è conquistato sul campo). La moglie (nonna del narratore, una donna «cattiva e razionale»), e le due figlie (una, «irrequieta e rabbiosa», è Angela) restano sole e attraversano la guerra e il dopoguerra innalzando un muro contro il mondo: «Sopravvivere è il loro unico fine».
Angela e sua madre fanno la faccia feroce al prossimo e il loro linguaggio si adegua (si danno e danno di troia e di puttana a tutto spiano) rispecchiando la loro struggle for life. Non coltivano né gentilezze, né delicatezze: «Per loro l’incanto esiste solo davanti a un piatto di frittura». E se al piccolo Antonio, entrato a far parte del bunker familiare, capiterà di indugiare in gentilezze e delicatezze, le due Erinni lo colpiranno con sarcasmi che sono ferite ancora aperte (questo libro è una cicatrice che sanguina).
La sua educazione sentimentale è affidata a due donne che «pensano solo al male, immaginano solo il male». Comincia così una inimicizia tra madre e figlio che dura tutta la vita: «Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo».
A confondere le cose c’è che il padre è l’opposto della madre (della quale è più vecchio di una ventina d’anni). Il padre non è sceso dalle montagne del Sannio, non ha origini sgherre. È un uomo di gran classe, spesso silenzioso, un esponente tra i più pregiati di quella borghesia napoletana costretta quotidianamente a fronteggiare lazzaronismo e vaiassaggine. Lui è un impeccabile professionista (uomo di conti, di cifre, di precisione), collezionista di rarità librarie, fratello inconsolabile di un artista morto giovanissimo in guerra e decorato al valore («il fior de’ tuoi gentili anni caduto»).
Franchini, fine cultore della materia, avrà almeno una volta pensato che la differenza tra suo padre e sua madre somiglia a quella che correva tra i due maggiori protagonisti della letteratura napoletana del dopoguerra: Duddù La Capria e Mimì Rea, che non furono solo due scrittori ma l’incarnazione stessa delle due anime della città: una apollinea, l’altra dionisiaca.
Perché un signore come il padre ha sposato una donna chiassosa, che erutta incessantemente livore? Come si sono conosciuti e piaciuti e pigliati?
Il padre non c’è più e Antonio ha una sola testimone a disposizione per trovare la risposta alla sua domanda. La madre, però, fornisce due versioni diverse, inconciliabili. Ecco il verbale dell’interrogatorio.
«Assecondando la sua natura bipolare, Angela racconta il loro incontro ora come idillio ora come dissidio.
Il primo nasce in un ufficio dove lei è la giovane impiegata e lui uno dei titolari. È appena cominciata l’estate e lui, che è socio di un circolo nautico, è già abbronzato e siede alla scrivania con la camicia sbottonata e mocassini senza calze. Tiene all’eleganza, non si è mai vantato di niente se non di avere sempre portato, prima dell’avvocato Agnelli, l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma quel giorno d’estate le maniche le ha rimboccate. Si sente osservato e le domanda: “Signorì, perché mi guardate?” E lei risponde: “Perché mi piacete”.
Nel secondo lei è una ragazza di sani principi che viene “da un piccolo paese della provincia di Benevento” e lui un borghese corrotto “giallo, muscio e cocainomane”, frequentatore di circoli nautici e di donne senza morale: “Pateto m’ ’o pigliai doppo che l’avevano sfruttato tutte ’e ffemmene ’e Napule”. E allude a un mazzo di chiavi che lui avrebbe platealmente buttato poco prima di sposarla e che secondo lei aprivano le porte delle sue tante storie clandestine».
Quale sarà mai la verità?
Antonio arriva a pensare che la madre sia la figura simbolo dei peggiori vizi nazionali: rancore, trasformismo, egoismo, classismo, qualunquismo, «la mezza cultura peggiore dell’ignoranza». Se c’è «una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre».
Ma c’è un capo d’accusa ancora più pesante: «Dicono dei padri che violentano le figlie, ma io ho visto Angela violentare la mia prima sorella. Annientarla, un giorno dopo l’altro».
Eppure.
Eppure, questo libro non è una vendetta, non è una resa dei conti. Diceva Hemingway (scrittore amato da Franchini, sebbene di recente abbia preso un po’ le distanze nei suoi confronti per stolide, secondo me, ragioni riconducibili all’imperversare del me too) che la cosa più difficile al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani. Il fuoco che ti porti dentro è una prosa assolutamente onesta su un essere umano, anzi su due: una madre e un figlio.
Oggi escono libri, ne pesco uno a caso, in cui l’autrice (autora?) racconta per filo e per segno la sua endometriosi quasi fosse la battaglia di Montecassino. Il libro di Franchini è sceso da un altro pianeta. Qui si gioca in Champions. Qui c’è un personaggio che si muove alla stregua di Filumena Marturano e non lo dico per mere questioni di contiguità geolinguistica. I prolegomeni stessi della filosofia di Filumena sono messi in dubbio. I figli so’ figli? Le mamme so’ mamme?
L’avevamo lasciata affacciata sul proscenio a declinare le proprie generalità. Poi, in un crescendo prodigioso, Angela Izzo ha conquistato il centro della scena. E non lo mollerà. Un monologo dietro l’altro. Come quello su Enzo, il giovane omosessuale che le dava una mano nelle faccende di casa e la teneva al corrente dei pettegolezzi rionali, al quale è stata legata da un lungo e affettuoso sodalizio. Angela ripete spesso il monologo su Enzo al figlio e lo chiude sempre con la stessa battuta, lo stesso refrain: «Meglio ca te facevo ricchione, ca ’e ricchiune vonno bene a ’e mmamme».
Poi c’è il monologo su Angela quando era studentessa, prima al liceo («’a scola d’o Gesù», la stesso di Lazzarella, la protagonista della celebre canzone) e poi all’università di lettere. Questo le fa credere di essere la «depositaria della purezza della lingua», benché a volte inciampi in un delizioso sproposito e chiami la filologia romanza «filologia e romanzo». Ed è quindi in qualità di depositaria della purezza linguistica che sfida il figlio scrittore dicendogli: «’O scrittore! ’O scrittore d’ cazzo, chesto sì tu!»
Il monologo scolastico si chiude con l’imitazione di una lontana compagna di banco, figlia di un magistrato, che smezzava con Angela i divini panini imburrati che portava da casa. Angela ama rifare il verso all’antica amica quando veniva interrogata e rispondeva con il suo eloquio raffinato: «Evaclito eva un filosofo oscuvo».
Tra i pezzi forti di Angela c’è la rivendicazione di essere una donna moderna e anticonformista. All’avanguardia rispetto alle donne della sua generazione, si è preoccupata pure di impartire ai figli la necessaria educazione sessuale. Il metodo scelto è insolito, creativo (si direbbe oggi): li portava d’estate a vedere nei cinema all’aperto i film porno soft ispirati (l’indotto pasoliniano) al Decameron. Le famose pellicole decamerotiche con i loro famigerati titoli, i soli che possono fare concorrenza agli altrettanto famigerati e leggendari titoli dei poliziotteschi e degli spaghetti western: Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno; Fratello homo sorella bona; La bella Antonia, prima monica e poi dimonia; ...e continuavano a mettere lo diavolo ne lo inferno; ...e si salvò solo l’Aretino Pietro, con una mano davanti e l’altra dietro.
(Scusate la digressione ma non sono riuscito a resistere al richiamo della foresta, la foresta adolescenziale, che quei titoli esercitano ancora su di me).
Tra gli highlight di questa serata d’onore di Angela (simile a quelle che le grandi attrici concedevano ai fan al ritiro dalle scene) c’è il discorso che sminuisce i disagi della ritirata di Russia affrontata dal marito e che, per fare una citazione teatrale assai chic, ricorda, rivesciandolo, il discorso di Ruzante tornato dal campo di battaglia: «Che po’ pateto quale guerra iette a fa in Russia? ’A guerra d’’o lietto, pecché l’ammo saputo doppo chello ca sanno fà russe, bielorusse, ucraìne».
Chiedo perdono a Franchini, non mi sfugge la terribilità di Angela, solidarizzo con lui per le scenate, le sfuriate, le cazziate e i cazziatoni che ha dovuto subire da questa donna ringhiosa e maldicente con la configurazione della matrigna più che della madre più matrigna che madre. Ma Angela non riesce a starmi antipatica (l’ho anche conosciuta una volta, per un pranzo a casa sua a Napoli, nell’incanto delle sue fritture).
Non mi sta antipatica la ragazza dalla «bocca carnosa, e una propensione spiccata a muoversi, ancheggiare e ballare», diventata poi la donna ringhiosa della maturità e quindi la vecchia immobile della fine, quando si trasferisce a Milano dal figlio.
E madre e figlio, tra un litigio e l’altro, porte sbattute e vetri rotti fino all’ultimo, rivedono assieme il film della loro vita con i personaggi che vi hanno avuto una parte, la “nemica” Rita Capece, la zia Vittoria, bellissima e acquatica, l’avvocato Filippo Signori, affascinante come il Delon ammaccato della Prima notte di quiete. E ancora: «La signora Cimmino, le sue figlie acchittate, la Luciana, questi lacerti di un’altra vita che già arrivano a me smembrati dalla risacca del tempo, chissà in quale forma giungono a lei, con l’urto di quale nostalgia insopportabile, relitti del naufragio della sua vita felice di una volta sbattuta nel frigido altrove in cui si sveglia adesso, disorientata, nel perenne allarme che strapazza i sensi dei vecchi...».
Altro flashback, la canzone Lazzarella, la preferita da Angela, forse perché si riconosce nella protagonista, studentessa come lei alla scuola del Gesù, la riottosa Lazzarella che rimbalza tutti i suoi spasimanti. Madre e figlia ascoltano per l’ennesima volta il disco e lui ne analizza le parole perché forse è lì la spiegazione del mistero materno: « nei versi non c’è solo la scuola o la camicetta a fiori blu e la grazia dell’Italia povera, c’è anche, e soprattutto, il negarsi, il dire no come prima risposta e solo per ripicca: ma la negazione è bella a primavera, nella brutta stagione il rifiuto è solo una spina in più nel ramo secco della vecchiaia». Le Lazzarelle non devono mai invecchiare.
Il passaggio dal Sud al Nord nell’ultimo periodo della sua vita ispira ad Angela nuovi monologhi, nuove filippiche, nuove litanie. Eccola, ormai quasi moribonda, ancora furiosa perché vuole fare la parmigiana di melanzane (uno dei suoi piatti di battaglia) per il figlio. Ma non sa se le viene perché le melanzane al Nord sono piene d’acqua. Tutto è pieno d’acqua al Nord, il Nord sta sopra l’acqua e non è acqua di mare, è acqua di palude e quindi fango, melma. Le melanzane del Nord vengono dal fiume Stige, le melanzane del Sud, che poggia sulla roccia e sul fuoco, hanno dentro il sole.
Quest’ultimo è un monologo fondamentale per capire che era Angela. Un monologo che evoca la potenza delle forze oscure, vulcaniche e sismiche del sottosuolo. È il punto di vista ctonio e Angela, indubbiamente ha qualcosa di una divinità ctonia. Ancora una battuta da uno di questi monologhi portentosi, visionari, veri prodigi linguistici (e forse aveva ragione lei a vantarsi di essere la depositaria della purezza della lingua, una purezza impura e perciò ancora di più ammaliante). L’ultima battuta, prima che il sipario cali, prima che vengano disperse le ceneri di Angela: «’E vecchie d’ ‘o Nord s’infessiscono perché magnano burro! ’O burro è melmoso, fa male! Io sempre olio!».
L’unica cosa sbagliata di questo libro che, ripeto, ci cade addosso da un altro pianeta, un pianeta dove la letteratura è ancora duello all’ultimo sangue, combattimento all’arma bianca, è il titolo. All’inizio doveva essere ’O Nord e ’o Sud, ipotesi fortunatamente caduta (sembrava quello di un film con Alessandro Siani). Poi si è scelto Il fuoco che ti porti dentro che è un nome esatto per la vicenda narrata ma che non mi fa impazzire. In mezzo c’era l’ipotesi di un altro titolo: Mater sempre certa. Quello era il titolo della storia di Angela e di suo figlio), il nome che sancisce la loro dannazione. Io lo ribattezzo e gli do dieci e lode. Mater semper certa è il libro dell’anno e non durerà solo un anno.
«Io mi chiamo Angela Izzo.
Sono nata a Cautano, un piccolo paese in provincia di Benevento.
Discendo dagli antichi Sanniti e appartengo alla razza degli sgherri.
A me me piace:
Il peperoncino
La frittura di pesce, alghe e cecenielli
I panzerotti e le paste crisciute
L’aglio e olio, e la cipolla
Gli spaghetti a vongole
Il ballo
’O pecorino
I gamberi, le alici e le triglie
Le cozze
La pizza
La lingua latina
Il colore giallo»
Ad libitum
Ennesima lectio magistralis del Maestro!
Magistralis ovvio.