JOKER A LUCI ROSSE
Paolo Di Betta scrive: «Non vorrei esagerare, ma la recensione di Magris a Sul tetto c’è Mendelssohn di Jiří Weil (Corriere del 29 dicembre scorso) non regge al confronto con la sua Pagella».
Paolo Di Betta scrive: «Non vorrei esagerare, ma la recensione di Magris a Sul tetto c’è Mendelssohn di Jiří Weil (Corriere del 29 dicembre scorso) non regge al confronto con la sua Pagella».
Sembra anche a me effettivamente. Ma preferirei lasciar giudicare ai lettori. Ecco a confronto alcune frasi di Magris e mie.
Incipit
Magris: «Jiří Weil è uno di quegli scrittori che assomigliano ai propri personaggi, talora sino a quasi confondersi con essi».
Io: «C’è da spostare una statua. È quella del musicista Mendelssohn. Succede a Praga durante l’occupazione nazista».
Metà articolo.
Magris: «Nato nel 1900 nei pressi di Praga da una famiglia ebraico ortodossa che verosimilmente gli ha trasmesso la consuetudine con i rovesci dell’esistenza individuale e collettiva, Weil si laurea a Praga, studia Gogol da cui impara a fare i conti con la fantasia e la stramberia del mondo. Negli anni Venti entra nel movimento comunista; risiede anche a Mosca, si interessa di cultura sovietica e traduce opere di Pasternak, Majakovskij, Esenin, Marina Cvetaeva e Lenin. Tradurre è sempre il modo migliore di essere un altro».
Io: «Weil fu ebreo e non ebreo, comunista e non comunista. La sua esistenza si svolse in bilico tra farsa e tragedia, due generi antitetici che spesso si danno la mano. Le SS volevano farlo fuori. Lui le dribblò, prima con un matrimonio combinato (ignoro i particolari, ma la trovata già da sola merita plauso) e poi fingendosi morto, applicando cioè l’arte della tanatosi in cui eccelle l’opossum della Virginia che spacciandosi per cadavere non cade preda del prepotente di turno».
Finale.
Magris: «Nell’imbarazzo generale, il naso più grande e più grosso risulta quello della statua di Wagner. La colpa, direbbe Max Brod, è di Praga».
Io: «P.S. Jiří Weil era uno degli scrittori preferiti da Philip Roth. Ammirato dallo stile laconico con cui Weil raccontò la barbarie e il dolore, Roth considerava quella sobrietà il commento più feroce all’apocalisse hitleriana».
Antonio Tamallio: «Se qualcuno avesse dei dubbi su quanto rappresentato da Joker, questa mattina sul sito del Guardian sono presenti titoli tipo: “Desidero ardentemente il sesso penetrativo ma mio marito soffre di eiaculazione precoce”; “Ho pianto per ore: il momento in cui la gente ha capito la verità su Babbo Natale”; “Devo scuotere il mio pene? Probabilmente no, ma ha bisogno di essere curato”.
Chiudo dicendo che Vernon Halliday, il personaggio di Amsterdam di Ian McEwan, è vivo e lotta insieme a noi».
Capisco cosa vuole dire. Il Guardian non è più il grande giornale che era e nemmeno il grande giornale che crede di essere, ma se la disperata lettrice che ama il sesso penetrativo e ha un marito eiaculatore precoce avesse scritto a Joker anche Joker avrebbe pubblicato il suo commovente grido di dolore.
Francesca (forum Substack, ma sarebbero cortesemente gradite generalità più estese) scrive: «Credo che la mia canzone preferita dei Beatles sia Eleanor Rigby, o forse è un fotofinish con Blackbird... le altre si perdono nella nebbia degli anni».
Eleanor Rigby, che raccoglie i chicchi di riso ai i matrimoni nella chiesa dove sarà seppellita senza che nessuno partecipi al suo funerale, e Padre McKenzie, che scrive sermoni che non avranno pubblico e la notte si rammenda i calzini, sono personaggi ispirati a Lennon e McCartney probabilmente dallo stesso sentimento, molto britannico, che ispira i romanzi religiosi, quelli più assorti, del mio prediletto romanziere vittoriano Anthony Trollope. Ed è un bellissimo sentimento.
Stefano Marelli scrive «Finalmente riconosciuta la supremazia di Schiava del Politeama» riferendosi a un mio dilemma personale (tra le canzoni di Paolo Conte è più sensuale, per le parole, ma anche per la musica, Come mi vuoi o, appunto, Schiava del Politeama?). Da qualche tempo propendo (ma ho il cuore dilaniato), per la seconda («Ah, giura che mai cancellerai con l’acquaragia / quella vernice oro che indugia / sul tuo corpo genial»).
Ora dopo questo endorsement di Marelli (l’autore di Altre stelle uruguayane, il romanzo che può vantare il titolo di romanzo più contiano, nel senso di Paolo Conte e della «genialità di uno Schiaffino»), penso che non ci siano più dubbi.
Silvano Calzini scrive: «Il più bel verso della canzone italiana? Metto un carico da novanta tratto da Ti lasci andare, la versione italiana a cura di Giorgio Calabrese di Tu t’laisses aller del piccolo-grande Charles Aznavour:
Ah, che spettacolo che sei
Con quelle calze sempre giù
Mezza truccata e mezza no
Coi bigodini ancora su
Io mi domando come può
Un uomo aver amato te
A occhio e croce direi che Cechov resta inarrivabile, ma Carver è lì a un passo».
Grande Aznavour (tra l’altro armeno come il prodigioso calciatore dell’Inter Henrikh Mkhitaryan, mio giocatore preferito attualmente come lo era una volta Thiago Motta). Permetta, caro Silvano, un mi ricordo personale: mi ricordo che quando ero bambino leggevo sempre la rubrica, una specie di diario in pubblico, che Giorgio Calabrese, maestro della Scuola Genovese, autore e consigliere di Mina (scrisse per lei E se domani), teneva su Bolero Film Teletutto. Bolero (che stupendo nome per un settimanale) pubblicava i fotoromanzi più moderni, perfino osé, tanto che una volta i lettori più prude protestarono e la rivista dovette scusarsi ufficialmente con loro per alcune immagini scosciate e scollacciate sfuggite (?) al controllo redazionale (ah! che meraviglia furono gli anni Sessanta con la lotta in pieno corso tra il diavolo e l’acquasanta).
Molti lettori hanno scritto a proposito della stroncatura che ho preso in prestito dalla bravissima Laura Salis nella quale si dava del «minchiamorta» a Emanuele Trevi.
Diego Mormorio, per esempio, mi ha scritto lapidario: «D’ORRIGO, non è da lei». Cosa rispondere se non: «DIECO, proprio lei!».
Andrea Pavanini: «Non ho cominciato a leggere Trevi e ora – dopo la stroncatura – ho smesso, come direbbe Simonetta Palazzi. Però non riesco a dare significato alla definizione “minchiamorta” il cui etimo e significato letterale mi sembrano chiari, ma non altrettanto sul piano letterario (per esempio non riesco ad associarvi Cognetti che pure dopo Le otto montagne non mi affascina). Forse perché non sono romano e Strega(t)to?».
Cosa posso dirle? A me sembra tutto chiarissimo. È intuitivo.
BREVE DRAMMA A LIETO FINE
Primo atto (che racconta lo sconforto per la sparizione di Joker da 7).
Scrive Flavia Campione: «Non le ho mai scritto ma concordo con Thunder Mimmo nel dirle che la sua non solo è la rubrica che leggo con piacere ma è quella che leggo nel momento del mio massimo piacere, la colazione del sabato, quando so che non andrò a lavorare, quando so che ho del tempo solo per me. Il tempo con lei è prezioso e dopo lo slancio delle prime pagine che attraverso superficialmente, plano sul suo Joker. Quindi, visto che sono già tempi grami, vado al sodo, terrà la sua rubrica su un altro settimanale? Dove la troverò con il suo Joker, con il nostro Joker? E soprattutto perché chiude? Mi ricordo ancora quando chiuse con Severgnini e là la capii perfettamente, adesso mi sono persa qualcosa e mi spiace.
Una stretta di mano vigorosa.
Grazie.
Sono una maestra».
Secondo atto (piccolo monologo con presa di coscienza finale)
Flavia Campione: «Ma perché non gliel’ho detto? Compravo 7 per leggere la sua rubrica. Mi faccia sapere, grazie».
Terzo atto (che racconta il sollievo per il ritorno di Joker in forma di newsletter) Flavia Campione: «Buon Natale... Grazie per i suoi pensieri, le parole, le suggestioni, gli accostamenti, la pesante leggerezza... mi fa viaggiare sempre in un mondo che amo».
Gianni Gambarotta scrive: «Il racconto su Cerami è il miglior D’Orrico, quello che cercavo (e trovavo) sulla Lettura e su 7, che ora abbandono in edicola. Mi sono abbonato alla newsletter, anzi ci ho provato, non so con quale risultato. La procedura è cervellotica, farraginosa. Non l’ha scritta Joker. Sperem».
Grazie Gianni, ora cercherò di far semplificare le pratiche.
Avevo lamentato, a proposito di Napoli milionaria! nella recente versione Rai, che per mettere in scena le opere di Eduardo gli eredi De Filippo non chiamano grandi attori come Carlo Cecchi (che sarebbe il più grande Eduardo possibile dopo Eduardo) o Toni Servillo, ma si affidano a regie e interpreti che fanno venire in mente il detto napoletano: «’A fessa ’mmano a ’e criature».
Beatrice Vitelli (vecchia e non dimenticata amica della sezione napoletana di questo Club) scrive: «Carissimo Antonio, felice di avere un tuo contatto. non ti scrivo per chiederti la traduzione di ’A fessa ’mmano a ’e criature, ma per segnalarti la versione castigata: La pazziella in mano alle creature.
P.S. Ti avevo scritto un messaggio via Instagram, che ti sarà sfuggito: tu sai quando esce in italiano The Last Chairlift il nuovo romanzo di John Irving? Sono mesi che ribalto internet senza risultati».
Cara Beatrix, chiamare pazziella il sesso femminile è il segno definitivo che quella napoletana è la civiltà superiore. In una parola a Napoli hanno racchiuso il senso dell’amore. Nemmeno il grande Belli nella bellissima La madre de le sante c’era riuscito.
Chi vvò cchiede la monna a Ccaterina
Pe’ ffasse intenne da la ggente dotta
Je toccherebbe a ddì vvurva, vaccina,
E ddà ggiù co’ la cunna e cco la potta.
Ma nnoantri fijjacci de miggnotta
Dìmo scella, patacca, passerina,
Fessa, spacco, fissura, bbuscia, grotta,
Freggna, fica, sciavatta, chitarrina,
Sorca, vaschetta, fodero, frittella,
Ciscia, sporta, perucca, varpelosa,
Chiavica, gattarola, finestrella,
Fischiarola, quer-fatto, quela-cosa,
Urinale, fracosscio, ciumachella,
La-gabbia-der-pipino, e la-bbrodosa.
E ssi vvòi la scimosa,
Chi la chiama vergoggna, e cchi nnatura,
Chi cciufèca, tajjola, e sseportura.
(Immaginate di sentire questo sonetto letto dalla voce di un ipnotizzante Marcello Mastroianni).
P.S. Per l’ultimo Irving ho scritto alla Rizzoli, sua casa editrice italiana. Per il 2024 non ne è prevista l’uscita.
E' la terza volta che scrivo il commento. Appena, per una ragione qualsiasi debbo interrompere si cancella tutto e debbo ricominciare. Quindi, sintetizzo:
1)1000 volte meglio D'Orrico di Magris che è molto meno mitteleuropeo di quanto ritiene, recando seco i germi dell'antico provincialismo nazionale;
2) rispetto a Lettura e a 7 che leggevano tutti, questa mail sembra una confidenza personale riservata a pochi eletti. Il barone Cappellani da Palazzolo Acreide, mio avo (che da post-borbonico sosteneva, riguardo alle varie invasione isolane "Passano i cazzi ma i culi sono sempre i nostri"), quando arrivò la televisione dichiarò che mai l'avrebbe comprata in quanto non intendeva sedere davanti alla strumento a vedere le stesse cose che seguiva il suo campiere (allora tv in bianco e nero e 1 solo canale).
Ciao Antonio e buon anno: "amor, salud, dinero y tiempo para gustar todo."
Anche io compravo Sette solo per leggere la tua rubrica, una delle recensioni che più mi è rimasta impressa è quella di Complotto contro l’America, in questi giorni ho letto che si ipotizza un finto rapimento...
Bellissima Eleanor Rigby, testo struggente, composta nel periodo in cui Paul andò in fissa con gli archi.
Tra le ultime canzoni di Conte, per me premio speciale a L’orchestrina, testo decadente e sensuale che termina facendo scattare una sonora risata, mi ricorda vagamente il finale di Con le peggiori intenzioni, se ripenso come ci rimasi male quando finii il libro, a distanza di qualche ora mi scappò una risata pensando all’intelligenza di Piperno.
p.s. Eh si, rido spesso, per me ridere è un segno di gioia e anche di approvazione